domenica 13 gennaio 2008

Mario Pescante-Piero Mei LE ANTICHE OLIMPIADI

Anche se parecchio in ritardo, eccoci nuovamente al consueto appuntamento mensile con il nostro bel librozzo.Visto e considerato che dal primo di Gennaio, siamo entrati ufficialmente nell’anno OLIMPICO, ho deciso di rendere onore a questo mitico appuntamento proponendo un libro che trattasse e spiegasse le origini di questo “sacro” appuntamento.
Sicuramente molti di voi già conoscono molte cose inerenti alle antiche OLIMPIADI (perché correvano nudi,quali erano le principali discipline praticate …..),Io stesso ho fatto un esame in proposito:”storia dell’educazione fisica”. Nonostante questo ho trovato piacevole leggere nuovamente un libro che trattasse questi argomenti, anche perché qualche cosa me la sono dimenticata e altre piccole chicche non le avevo proprio studiate.
Una delle cose che mi ha interessato maggiormente, è stata la comparazioni delle antiche prestazioni con quelle moderne,facendomi sorgere conseguentemente la naturale domanda : “ma se un antico Olimpionico avesse potuto allenarsi con i mezzi attuali, di quanto le sue prestazioni si sarebbero discostate dalle nostre”? Avere una risposta in proposito sarebbe molto interessante, consentirebbe di capire quanto ci siamo evoluti sia fisicamente, sia come tecniche di allenamento.

Vabbè, basta fare supposte!

Passiamo alla descrizione rapida del tomo:

Non è uno dei più belli che io abbia letto (non mi piace come è scritto, non è una critica ai contenuti. I contenuti sono la storia e la storia non si cambia), la scelta è ricaduta su questo per la sua semplice reperibilità e anche perché nonostante siano oltre 300 pagine, queste corrono via facili facili.
Gli autori, Mario Pescante (mi auguro non abbia bisogno di presentazioni) e Piero Mei ( giornalista per “IL MESSAGGERO”), hanno cercato di toccare più argomenti possibili sviluppandoli in maniera esaustiva. Interessante il capitolo sul ruolo delle donne nei GIOCHI OLIMPICI.

E adesso………….

PARLIAMO DEL PENTATHLON!!

Pentacampeào, come il Brasile del calcio nel 2002: cinque volte campione, o meglio campione di cinque specialità; penta significa cinque, athlos gara. La gara in cinque gare è il pentathlon, che entra nei Giochi olimpici, prima e unica prova multipla, a partire dal 708 avanti Cristo, anno dell'Olimpiade numero 18. Ci vogliono cinque doti per vincere il pentathlon: velocità, agilità, forza, resistenza e coraggio. Bisogna superare tre prove «leggere», come la corsa, il salto in lungo e il lancio del giavellotto, e due «pesanti», come il lancio del disco e la lotta; c'è chi sostiene che non ci fosse il giavellotto ma il pugilato, e chi non il lungo ma il pancrazio: fonti meno attendibili di quelle che invece elencano quelle prime cinque discipline. Il lungo, il disco e il giavellotto non venivano mai disputati come gare a sé, ma facevano parte solo di questa straordinaria prova multipla, che aveva anch'essa un inventore nel mito: Giasone. Giasone, con i suoi Argonauti, era partito alla ricerca del vello d'oro; c'era da ingannare il tempo con le gare, e c'era, tra gli Argonauti, Peleo, il padre di Achille, che era assai forte nella lotta. Giasone, che era più amico di Peleo che non di altri, visto che nel gruppo c'era l'imbattibile nel giavellotto, quel- lo nel disco, quello nella corsa e quello nel lungo, decise di combinare l'insieme; Peleo era bravo in tutto ma bravissimo in niente, bravissimo soltanto nella lotta. Perciò indisse una gara unica che comprendesse le cinque specialità: Peleo poteva difendersi nelle prime quattro e dare il colpo del kappaò nella lotta.Storicamente, il pentathlon rappresenta una evoluzione dello sport: è quasi ovvio sottolineare che nasce più tardi di altre discipline, giacché alcune di quelle comprende; quando arrivò alle Olimpiadi, vide il trionfo degli Spartani che cominciarono con il successo di Lampide appunto nell'Olimpiade numero 18 e che ebbero molti altri olimpionici, fra cui tre consecutivi (26a-27a-28a Olimpiade). Nasceva per ultimo, il pentathlon, e per ultimo veniva disputato nel calendario olimpico, e la lotta, al di là dell'ordine delle altre gare che è tuttora materia di discussione, veniva combattuta per ultima tra le cinque gare. È quel che si evince dall'oc cupazione di Olimpia a opera dei Pisati nel 364: le gare di , corsa si erano già svolte nel dromos e per concludere il pentathlon bisognava recarsi nel ginnasio, dove si teneva la lotta, ha scritto Senofonte. .La corsa era quella dello stadion, la lotta era la lotta greca antica; ci sono dettagli tecnici sulle altre tre discipline che completavano il pentathlon. Il salto in lungo, ad esempio. Il salto in lungo era la tipica attività nata a puro scopo agonistico; aveva delle caratteristiche assai diverse dagli odierni salti in lunghezza: prima di tutto veniva affrontato con degli attrezzi che i salta tori impugnavano, gli halteres; l'intento era quello di agevolare il movimento delle braccia durante la rincorsa e di prolungare la traiettoria del salto al momento dello stacco; gli halteres erano di pietra o di metallo, il loro peso variava da uno a quattro chilogrammi, la forma non era sempre uguale e offrivano facilità di impugnatura con le mani grazie a fenditure che ne facilitavano la presa. «Hanno forma di un semicerchio più ovale che tondo, da potervi infilare la mano, come il braccio nella maniglia dello scudo» scriveva Pausania; e Filostrato diceva che gli haltres «sono guida sicura delle mani e facilitano il balzo a terra». Il più antico di questi halteres, almeno come reperto archeologico, proviene da Eleusi ed è datato intorno al VII se colo. È un pezzo di piombo di due chili con una incisione per il vincitore di una gara, Epeneto. Col trascorrere degli anni, gli halteres, almeno stando all'archeologia, si facevano più léggeri: non superavano il chilo quelli del VI secolo, più grossi nella parte anteriore e più sottili in quella posteriore. Si arrotondavano nel V secolo e non ne sono stati trovati di date posteriori (cilindrico a Rodi, secondo una forma che sarà utilizzata anche dai saltatori romani).Una breve rincorsa, partendo con le braccia ben aderenti al corpo, e poi lo stacco da una linea, detta bater, posta su di una piccola pedana rialzata; durante la traiettoria le braccia vengono proiettate in avanti, il più possibile parallele; un attimo prima della ricaduta, le braccia vengono portate all'indietro; la chiusura avviene a piedi nudi nella skamma, dove la sabbia era assai livellata per rendere più visibili le impronte dei saltatori. Questa è la tecnica che si deduce specialmente dalle pitture vascolari: la buca veniva scavata 'con dei picconi, il cui utilizzo veniva consigliato a pugili e lottatori. Il salto veniva misurato partendo dalla pedana di battuta fino al punto di caduta dell'atleta più vicino allo stacco. Si provvedeva alla misurazione con un'asticella, il kanon. Quanto saltavano gli atleti greci? L'unica cosa certa è che la skamna era lunga 50 piedi; il saltatore Faillo, di Crotone, una volta si ruppe una gamba cadendo cinque piedi oltre la buca. Saltò quindi 55: più di 16 metri. Di qui la tesi che il salto in lungo fosse un salto multiplo: il triplo è del resto una specialità ancora molto popolare nella Grecia settentrionale. Salto multiplo? Con gli halteres d'impaccio tra le mani? Con questa considerazione c'è chi respinge la teoria, e magari tutto quel numero di piedi ha subito qualche errore di trascrizione nel tempo. Un salto di Chionide, spartano che avrebbe superato di due piedi la skamma, quindi 52 piedi, quasi 16 metri, in altre fonti viene riportato come un salto di 22 piedi, e quindi di quasi sette metri: accettabile secondo le prestazioni moderne, ma già a quei tempi?.. Oltre la misura, comunque, per il risultato era determinante lo stile: una caduta scoordinata e con labile traccia sulla sabbia veniva considerata la prova di un salto nullo. Ogni saltatore aveva a disposizione tre tentativi.Un attrezzo di metallo o di pietra di forma lenticolare, quindi rotondo, più spesso al centro che ai bordi, molto pe sante, levigato in superficie quindi molto difficile da afferrarsi: questo era il disco da lanciare secondo Luciano, il solos, come veniva chiamato secondo l'antica dizione omerica (solos, dal semitico seta, roccia) il pezzo di ferro lanciato in onore di Patroclo. Luciano vide a Olimpia tre esemplari di disco: uno di questi era attraversato da un buco all'interno del quale si faceva passare una cinghia. L'atleta, posto su di una pedana rialzata, situata nello stadio, tiene il disco con la mano e con l'aiuto della cinghia; lo muove con movimento circolare e lo lancia con tutte le sue forze. Il disco vola nell'aria, cade, rotola sul terreno. Si segna il punto in cui s'arresta: è a sorpassare quel punto che tendono gli sforzi degli altri atleti. La descrizione del lancio è pure di Luciano, il quale considerava come punto per calcolare la misura non il punto di caduta ma il più probabilmente lontano punto d'arresto. Un sasso rotondo lanciato con l'aiuto di una cordicella: sembra l'antenato dell'italianissima ruzzola più che del lancio del disco.Filostrato, invece, lo racconta così: l'atleta, dopo aver cosparso l'attrezzo con sabbia per aumentarne la presa, si portava su di una pedana, piccola e sufficiente solo per un uomo, delimitata davanti e ai lati, ma aperta posteriormente, cosicché il lanciato re aveva la possibilità di prendere l'avvio per darsi lo slancio. II lanciatore sollevava il disco all'altezza del capo con entrambe le braccia, tenendolo aderente all'avambraccio destro con i polpastre11i della mano destra; quindi spingeva il braccio destro all'indietro e in basso, mentre la testa e il corpo seguivano il movimento girando nella stessa direzione; tutto il peso del corpo poggiava sul piede destro. Come si vede, i mancini non avevano scampo. Il numero dei lanci era di cinque. La base di partenza era la linea frontale della balbis, i «blocchi» dei corridori dello stadion; il punto di caduta (o di arresto, secondo le diverse scuole di pensiero) era segnato con un piolo. Era prefissata e confinata una zona di caduta: se il disco andava oltre i limiti laterali il lancio era nullo.Quanto erano lunghi i lanci? Faillo, una volta, avrebbe raggiunto i 95 piedi, e Flegia avrebbe scavalcato il fiume Alfeo nel suo punto di maggior larghezza: 190 piedi, sessanta metri più o meno.

2 commenti:

Arnaldo ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
Arnaldo ha detto...

Ho visto una volta uno speciale di SuperQuark sulle antiche olimpiadi, non so quali fossero le loro fonti, ma parlavano di:
1) salti in lungo da fermo (in effetti correndo coi pesi mi sa che era più il danno del beneficio, mentre saltando da fermo con dei "pesi" in mano è stato misurato (ai giorni nostri) un miglioramento nell'ordine della ventina di cm.
2) dischi particolarmente pesanti (anche se probabilmente quelli pesanti erano "rituali", quelli da gara pare fossero un po' più leggeri).
Per il resto non saprei!
Una considerazione tecnica: o gli attrezzi erano molto leggeri, o le misure (nel disco) non sembrerebbero molto possibili, viste tecnica (il lancio del disco avveniva praticamente da fermo ed i dischi non penso fossero bilanciati ed aerodinamici come quelli odierni). Cioè, x lanciare 60 m quasi da fermo con quei dischi, magari scalzi sulla terra, o il disco pesava 1 kg o giù di lì (e già ci voleva uno parecchio capace, vi assicuro), oppure mi sembra difficile! E' mai stata presa in considerazione l'ipotesi che i loro "piedi" non fossero come gli odierni (e che quindi 180 piedi non siano 60m?)
Bella recensione, bravo Pavlov!
Ciao ciao