martedì 2 ottobre 2007

Mauro Covacich - "A Perdifiato"

Dario Rensich corre, e lo fa per sfuggire alla vita da adulto. Arrivato sesto nella gara di New York, andrà in Ungheria ad allenare un gruppo di ragazze pronte a tutto pur di emergere. Da qui la passione per Agota, giovane e introversa atleta ungherese, pur essendoci in Italia una moglie ed una figlia adottiva in arrivo ad attenderlo. Una storia che si svolge lungo le rive di fiume in agonia, il Danubio, inquinato dal cianuro (riferimento ad un evento realmente accaduto). Fiume che nonostante questo, fa da cornice agli allenamenti delle ragazze (veramente belle le descrizioni degli allenamenti). I richiami alle tecniche di allenamento sono precise e veritiere.
Appassionate ed emozionante la maratona finale...da leggere tutta d’un fiato!

Un piccolo assaggio:
Il Lunghissimo ha messo in difficoltà alcune ragazze. Magdolna ha una crisi emorroidaria in corso. lmréné ha avuto due scariche diarroiche, sopravvenute a perfezionare un principio di disidratazione. A Mihalyne è capitata la cosiddetta indigestione d'acqua, che è l'altra faccia dello stesso problema, e lo stomaco le si è riaperto solo stamattina con una flebo decongestionante. Poco male, il primo Lunghissimo può fare questo effetto. Per Magdolna poi sono proprio contento. Sarà divertente incrociarla sulla Karasz Utca, sabato, mentre porta a spasso quei suoi capelli a più ricrescite senza poter smettere di allargarsi le mutande dal taglio del culo. Sarà divertente vederla passeggiare a gambe larghe, magari a braccetto del suo amico Làszlò Non è strano che in uno sforzo così intenso e prolungato ti si lacerino i muscoli rettali, però se ti capita a diciott' anni, cara Magdolna, quella sarà la tua croce per tutta la carriera.
All'inizio l'avevano presa quasi per scherzo. Correre ai ritmi del Lunghissimo in effetti non sembra una cosa seria. A 4'20", ovvero a un minuto circa sotto la soglia, le ragazze rischiavano di ingolfarsi. Non erano mai andate così piano, non sapevano dove scaricare tutti i watt dei loro polpacci, delle loro caviglie, della loro precedente vita di mezzofondiste. Nel tratto cittadino che conduce all'argine chiacchieravano, facevano i loro stupidi balzi, indicandosi i piedi, aggiustandosi il top, esibendo ai tizi delle fermate dei tram un relax sofferto, non voluto. Dovevo riprenderle in continuazione. - Keep down the knees, Monika -. Ci si metteva anche la prima della classe: davanti, come al solito, più alta di mezza testa, Monika zampettava, si girava a destra e a sinistra, le mancava solo il bastone da majorette. Dietro di lei, Agota sprecava millilitri di ossigeno per gridare a Làszlò di tenersi più largo dal gruppo con un'insistenza e una foga onestamente esagerate. Finché per fortuna, passate le villette a schiera di Furj Utca, anche l'ultima traccia di pubblico è svaporata nella bruma della campagna. L'argine ci aspettava subito dietro un edificio in costruzione. Ecco la costola, finalmente. Sporgeva da fare impressione: dritta fin quasi a dove si vedeva, curva laggiù, dove il pianeta curvava. Quando ci siamo montati sopra, la concentrazione è venuta da sola.
Via via che incontravamo le tacche uscite dalla bomboletta di Làszlò, le ragazze prendevano coscienza della misura dell'impresa. Alla dodicesima, bisognava toccarne ancora sette e poi tornare indietro. Prendeva forma nella loro mente l'idea del Lunghissimo. Facevano i conti: 38 km a quel passo significava due ore e tre quarti almeno di corsa ininterrotta una durata di cui non avevano esperienza ma che ora iniziavano a immaginare. Io seguivo i cambiamenti. Guardavo i calzoncini già fradici di Agota, i glutei rosa in trasparenza, la pelle luccicante delle spalle: alla fine dell'allenamento avrebbe perso circa tre chili, in buona parte poi reintegrati con liquidi e sali, ma il suo corpo non avrebbe smesso di consumare. Spaventato, quasi impazzito per la quantità di calorie richieste, avrebbe continuato a bruciare adipociti anche nel sonno. Era bello figurarsela accesa, in funzione, mentre dorme. Questa cosa qui in calzoncini bianchi è mia. L'ho trovata, me l'hanno regalata, e adesso è tutta per me. Cercavo di non farmi sorprendere dalle altre mentre la osservavo, ma ormai su ognuna era scesa una calotta di solipsismo. Nei tratti asfaltati il gruppo si allargava, nei tratti sterrati si assottigliava in due file assecondando le piste senz'erba, i binari consumati dai mezzi. Si apriva e si chiudeva. Tutto avveniva naturalmente. Nessuno diceva niente perché succedesse. Era un unico grande polmone che respirava. Indossavamo le Wave Phoenix, che hanno un modo speciale di cullarti a velocità di crociera. Anche il loro rumore tendeva a sincronizzarsi, creando, insieme a quello del fiato, una specie di metrono ma collettivo. Tre passi al secondo, duecentotrenta metri al minuto, quattordici chilometri all'ora. Solo la citybike di Làszlò cigolava fuori tempo. - You need visa to go Romania, - scherzava il nostro por - taacque. In effetti eravamo talmente lontani dall'ultima casa che potevamo immaginare di avere già abbandonato l'Ungheria. Era come se stessimo attraversando una sterminata terra di nessuno, una terra che appartiene alla T erra e basta, un pezzo di pelle teso come solo il collo di un contorsionista può esserlo. Ogni tanto incontravamo qualcuno intento a spargere letame. Le sventagliate di merda salivano di parecchio oltre la cabina del trattore. La puzza copriva quella del fiume e Làszlò chiosava: - This not bad smell, this good -. Dei due lati, quello era il lato della vita: il lato destro andando, il lato sinistro tornando. Di qua c'era la morte, con i suoi alberi e le sue frasche avvelenate, ma di là no, di là c'era la vita, la vita concimata della pianura. Era questo che voleva insegnarmi Làszlò, credo. Intanto passavamo accanto a una dozzina di contadini piegati sui loro campi neri. I cavolfiori che estraevano dalla zolla sembravano teste sepolte di fresco, abbandonate li dopo una decapitazione di massa. Il loro lavoro aveva tutta l'aria di una riesumazione post eccidio. Ho girato la testa verso il Tibisco e ho visto le nostre ombre vatusse proiettate sulla sterpaglia, in fuga accanto a noi. Sugli alberi, solo corvi. Anche in mezzo ai rovi, alle canne e al fango. Tanti, moltissimi corvi, che scintillavano come piccole carrozzerie sotto il sole di mezzogiorno. Dovevano essere loro gli uccelli che avevamo visto in cielo, io e Làszlò, il giorno delle misurazioni in bicicletta: non c'era nient'altro che fosse capace di volare nel raggio di quindici chilometri. Tut-to era fermo ora. Fermo e silenzioso. Gli alberi, il fiume, i contadini, i corvi, il collo del contorsionista. Solo noi ci muovevamo li sopra.
I problemi sono cominciati al ritorno. Dopo il ristoro del trentesimo chilometro abbiamo dovuto fare due minuti di corsa sul posto, in attesa che Irnréné scaricasse. Intanto Mihalyne aveva già avuto alcuni conati e Magdolna aveva preso a correre schiacciata sui talloni, con le cosce divaricate e una mano costantemente in cerca dell'ano. Comunque non si trattava di una disfatta: le altre quattro stavano reggendo a meraviglia. Monika in particolare, salvo la perdita di qualche elastico arancione, non aveva praticamente cambiato aspetto. Quando siamo rientrati in città mi sono messo io davanti per impedire che la disperazione le costringesse a incrementare l'andatura. Sentivo la stanchezza massaggiarmi dolcemente le meningi, viziarmi con dosi smodate di endorfine, come un pusher innamorato. Sentivo i lamenti sommessi di Mihalyne, la prima esplosione di vomito, la sua vergogna. - Well done, Mihalyne. Don't give up, - le ho gridato. E lei è stata colta da un' altra esplosione, proprio davanti alle inferriate del Ligetfurdò. Dovevano essersi voltati anche i pallanotisti. Che schifo! Teppiste! Si, si, teppiste, dite pure, dite quello che volete.
Ma Mihalyne non ha mollato.
Subito dopo lo stretching ho chiamato Maura. Le ho raccontato delle mie ragazze, di come se la cavano. Le ho detto che una ha cagato nel parco, che un' altra esplode vomito come Paul Tergat e inspiegabilmente non ne va fiera, e poi che l'indomani avrei dovuto concedere una colazione seria se no l'ammutinamento era garantito. Insomma cercavo di divertirla, lei però sembrava ascoltarmi con mezzo orecchio. Perdeva le battute, rideva a sproposito. A un certo punto mi ha chiesto:
- Farai correre così anche tua figlia? Sono rimasto a fissare il termosifone. Era come se la mano di Maura fosse uscita dal telefono e mi avesse strappato la spina dorsale. Distrattamente, il bello è che l'aveva fatto distrattamente. E io di colpo ero privo del sistema nervoso centrale.
- Dario, mi senti?
- S sì.
- Che fai? Non mi rispondi?
- Non so. - Massi, lo so io. La farai correre cosi, la nostra piccola. Già vi vedo, ogni mattina, su a Basovizza, nel tuo boschetto. Ti vedi? Ti vedi con Fiona? - Nel suo tono la distrazione era svanita. Adesso c'erano picchi molto acuti. - Oppure, nel Tilden, a Berkeley. Perché potremo anche andare a trovare Alberto, no? lo vi vedo benissimo voi tre, che girate tra gli eucalipti. Eh? Ti vedi? Ti vedi con Alberto e la bambina? lo in effetti vedevo tutto. Vedevo il boschetto di Basovizza, i suoi sassi, il suo tappeto di aghi di pino. E poi vedevo il Tilden, gli eucalipti e io e Alberto che ci corriamo in mezzo. Ma anche di piu: vedevo Trieste per intero, che si cala da Basovizza giu giu fino al mare, le salite e le discese della mia città, le salite e le discese di Berkeley, le salite e le discese del mondo rimasto fuori da Szeged. C'era solo una cosa che non vedevo.
- Rispondi. Ti vedi? Te la vedi Fiona che corre con te? Solo una cosa. Comunque ho risposto si.