martedì 24 giugno 2008

Simon Kuper - CALCIO E POTER


Calcio e potere, binomio quasi scontato.
Penso che anche un bambino delle elementari alla domanda “ cosa assoceresti alla parola calcio”, risponderebbe “potere”. No mi correggo direbbe Soldi ma comunque penso che cambi poco.
Il problema non sta nel fatto di sapere che calcio e potere vadano a braccetto, ma è sapere IN CHE MISURA ciò avviene.
Leggendo questo libro, potrete vedere le atrocità commesse in Argentina quando ospitò e vinse la coppa del mondo. Dalla più semplice partita comprata per passare il turno, alle migliaia di persone torturate e uccise per nascondere la vera realtà Argentina. Tutto questo per poter dare lustro e visibilità ad una nazione, per sponsorizzare il proprio regime!!!!
Potrete vedere la tragicomica situazione dell’africa, tra superstizioni, riti magici e capi di stato che si sostituiscono ai C.T.
Oppure di come i brasiliani nel 93 dissero che avrebbero deciso chi votare solo dopo aver saputo chi fossero i campioni del mondo.
Infine, potrete leggere di come un capo di stato abbia costruito la sua ascesa al potere partendo dalla rifondazione di una squadra di calcio. Creò una squadra cosmopolita, organizzata e ricca, che sconfiggeva avversari di tutta Europa. Questo era esattamente quello che gli elettori volevano che facesse con lo stato. Stato che fino a quel momento era bloccato a causa della corruzione che “allora” dilagava. Così, presentandosi alle elezioni come capo di un partito il cui nome era più simile ad un coro da stadio, vinse a mani basse.
Indovina indovinello, di chi si sta parlando?
“Questa è la storia politica e sociale dello sport più popolare del mondo. Un racconto sul campo che tiene insieme il consenso a Mussolini e l'ascesa di Berlusconi, l'indipendentismo basco e catalano, lo scontro religioso in Irlanda tra Celtic e Rangers, i traumi della Seconda guerra mondiale tra Germania e Olanda, la contrapposizione tra squadre borghesi e popolari. Perché il calcio è molto più di un gioco: è uno spazio simbolico dove prendono forma e si sfogano l'appartenenza e l'avversione. Può essere usato da dittatori e politicanti, accendere rivoluzioni o salvare regimi.”

GIOCO GLOBALE, JIHAD GLOBALE

Agli inizi del 1994 Osama bin Laden passò tre mesi a Londra, dove fece visita ai suoi sostenitori e anche ai banchieri, e andò per quattro volte a vedere giocare l'Arsenal. Bin Laden era cresciuto in mezzo al calcio per la maggior par­te della sua vita. Invero, fu proprio il gioco ad avvicinalo per la pri­ma volta al fondamentalismo: da adolescente, nella città saudita di Gedda, bin Laden fu uno dei ragazzi che il professore siriano persua­se a restare a scuola il pomeriggio, grazie alla promessa di fadi gioca­re a calcio. Poi, come scritto da Steve ColI sul New Yorker del dicem­bre 2005, il siriano li educò secondo una variante violenta dell'lslam. I.;amore di bin Laden per il calcio non gli impedì di partecipare a un complotto per massacrare le Nazionali statunitense e britannica du­rante i Mondiali del 1998; eppure, dopo il viaggio a Londra, raccon­tò agli amici di non avere mai visto una passione simile a quella dei tifosi del calcio.
È possibile che oggi il calcio non abbia in nessun luogo un'impor­tanza maggiore di quella che riveste in Medio Oriente e nell' Afri­ca del Nord. Ai terroristi di quelle zone il gioco deve sembrare un intrattenimento perfetto: una passione tradizionalmente maschile e asessuata, dall'estensione globale e spesso oggetto di dispute tra tri­bù contrapposte. I dittatori locali, che nel resto del mondo sono una razza in via d'estinzione, sfruttano il calcio per ottenere prestigio. E in quelle dittature, se cercate il dissenso, andate allo stadio.[...] Per un uomo giovane in Medio Oriente, obbligato a passare il proprio tempo libero in compagnia di altri uomini giovani, il calcio è spesso l'unico svago. È per questo motivo che a Tripoli, la capitale della Libia, le partite tra le due squadre principali attirano una folla di centomila persone, ossia più di qualsiasi città in Europa.[…]
Alla famiglia di Saddam lo sport piaceva. Ogni aprile, per fe­steggiare il suo compleanno, si tenevano a Baghdad le Olimpiadi di Saddam. Non le avrete mai viste su Fox Sports, ma nella loro ultima edizione, nel 2002, con la Società per l'amicizia russo-irachena co­me sponsor, queste attirarono atleti da settantadue Paesi. Forse ispi­rato da questo fatto, l'Iraq di Saddam stava concorrendo per ospita­re i Giochi Olimpici del 2012. [...]Tuttavia, il presidente delegava principalmente al figlio Uday la gestione dello sport. Un misto tra un playboy e un torturatore, para­lizzato dalla vita in giù in seguito a un tentativo di omicidio subìto nel 1996; Gestiva la Federcalcio irachena, il Comitato olimpico iracheno e anche la prigione nel palazzo del Comitato olimpico nazionale, in cui gli atleti che ottenevano risultati scarsi venivano torturati. Molti atleti iracheni abbandonarono lo sport per paura. Un membro del­la Nazionale di calcio durante l'era di Uday raccontò di essere stato picchiato sulle piante dei piedi, trascinato con la schiena nuda sulla ghiaia, e quindi chiuso in un serbatoio delle fogne così che le sue fe­rite si infettassero. Altri fuggiaschi hanno raccontato storie analoghe. Issam Thamer al-Diwan, in passato giocatore iracheno di pallavolo che adesso vive negli Stati Uniti, ha raccontato a Sports lllustrated di avere con sé una lista di cinquantadue atleti che egli afferma essere stati uccisi dalla famiglia di Saddam.
La Fifa inviò una commissione in Iraq perché investigasse sulle accuse di tortura. Gli iracheni fornirono alla commissione giocatori e allenatori, che giurarono ciecamente che quelle accuse erano tutte menzogne. La Fifa se la bevve, e così all'Iraq di Saddam fu permes­so di giocare nel calcio internazionale. […]
La Libia è il classico esempio di paese in cui l'unico rifugio sicuro per la liber­tà di espressione è lo stadio di calcio. Nel, 1999 il Dipartimento di stato degli Stati Uniti riportava che «l'ultima esibizione di pubblico scontento e risentimento nei confronti del governo [libico] si è avuta quando il 9 luglio 1996, durante una partita di calcio a Tripoli, ci fu­rono disordini scatenati dall'assegnazione di un calcio di rigore. La rara istanza di disordini pubblici ebbe origine quando fu segnato un gol sospetto dalla squadra per cui tifavano i figli di Gheddafi e l'ar­bitro amministrò il gioco in loro favore». I tifosi iniziarono a cantare slogan anti Gheddafi, al che i figli del dittatore e le loro guardie del corpo iniziarono a sparare […]
Fu però soltanto in seguito che il calcio in Libia assunse quella sfumatura politica che non si trova in nessun altro luogo. Più o meno allo scoccare del nuovo millennio, Saadi, figlio del colonnello, deci­se che voleva giocare in Nazionale. All'epoca, non giocava nemmeno in una squadra di club; essendo segretario della Federcalcio libica, il suo giocare avrebbe costituito un mancato rispetto del severo codice etico libico, così assunse un allenatore privato olandese.
Saadi investì nel calcio una buona parte della ricchezza petrolife­ra della Libia. Gli stadi spuntavano dal suolo proprio come il petro­lio. Dietro consiglio dell' amico e mentore di Saadi Diego Maradona, Carlos Bilardo, che era stato allenatore dell' Argentina per la Coppa del mondo del 1986, fu chiamato a gestire la Nazionale. Lo sfortuna­to corridore Ben Johnson (che pare sia il peggior giocatore di calcio del mondo) divenne invece il preparatore atletico.[…]
Alla fine, come così tanti grandi giocatori, andò a parare nella Serie A italiana. Iniziò nel Perugia, nelle cui file disputò una parti­ta, ma fu presto estromesso per aver assunto droghe. (Può darsi che avesse seguito i consigli di Maradona e Ben Johnson.) Malgrado ciò, l'Udinese fu felice di essere la squadra successiva a metterlo sotto contratto. Saadi e il suo entourage occuparono il più lussuoso hotel di Udine (che per qualcuno abituato a disporre delle rendite petrolifere del proprio paese non significa neanche spendere molto). Registrata una sola presenza nei ranghi udinesi, si è trasferito alla Sampdoria, presieduta dal «collega petroliere» Riccardo Garrone. Si pensa che Saadi dia alle squadre che lo accolgono qualche eu­ro, contrariamente alla tradizione che vuole che sia la squadra a pa­gare i propri giocatori. Ma la compagine italiana che ha preso più sol­di dal petrolio libico è stata la Juventus. Nel 2002 il padre di Saadi acquistò una quota azionaria della squadra torinese. I Gheddafi fir­marono tre anni dopo un contratto decennale da 240 milioni di euro per fare pubblicità alla compagnia petrolifera libica, la Tamoil, sulla maglia della Juve. Si trattava del più grande accordo della storia del calcio per la pubblicità su una maglietta, forse i Gheddafi, legandosi a una delle istituzioni più popolari di tutta Italia, speravano di guadagnarsi la benevolenza del paese la prossima vol­ta che la Libia avesse litigato con gli Stati Uniti.[…]
Per lungo tempo i terroristi sono stati affascinati dal calcio. Per loro si tratta di qualcosa di più che un semplice passatempo. Le due stra­de hanno una serie di somiglianze. Far parte di una squadra di cal­cio è un tipo di legame maschile non del tutto diverso da quello che si stringe facendo parte di una cellula del terrorismo islamico. In en­trambi i gruppi, giovani uomini tendono a sviluppare un atteggiamen­to «noi contro il mondo». Non sorprenderà che la squadra di calcio palestinese della moschea lihad a Hebron avesse il doppio ruolo di incubatrice per attentatori suicidi: cinque dei suoi giocatori si fece­ro esplodere per attaccare obiettivi israeliani.
Ma l'attrattiva principale che il calcio esercita sui terroristi è la diffusione globale del gioco. Il terrorismo è una forma di pubbliche relazioni. L'obiettivo è diffondere la maggior paura possibile con il minimo sforzo. Per fare ciò, i terroristi cercano i luòghi e gli eventi più pubblici che ci siano. Quindi lo sport. È per questo che il gruppo palestinese Settembre Nero rapì e uccise undici atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco del 1972. Grazie a recenti miglioramenti nel­la tecnologia satellitare, centinaia di milioni di persone videro l'or­rore in diretta tv.
Louis Mizell, in passato agente speciale e ufficiale di intelligen­ce del Dipartimento di stato, mi raccontò nel 2005 che da Monaco in poi aveva registrato 171 attacchi terroristici nel mondo dello sport. Quando degli assassini anticastristi fecero esplodere l'aereo che tra­sportava la Nazionale cubana di scherma nel 1976, può darsi che non stessero pensando soprattutto allo sport, ma i terroristi a venire sì. Sono molte le atrocità che oggi vengono a malapena ricordate: i 20 soldati filippini uccisi durante una corsa nel 1987, dopo che dei ter­roristi che si fingevano volontari passarono loro dell' acqua avvelena­ta; o la canadese uccisa da una mazza di softball manomessa durante un torneo in Cile nel 1990. Forse la peggiore atrocità fu l'abbattimen­to da parte della Corea del Nord di un aeroplano di linea sudcoreano nel 1987, che uccise tutti e 115 i passeggeri. «L'obiettivo era quello di destabilizzare i Giochi olimpici di Seul del 1988» mi rivelò Mizel, che aveva lavorato sul caso. Ma aggiunse: «Lo sport che da solo è il più attaccato è il calcio, perché è il gioco più famoso del mondo».
Negli ultimi anni è apparso un nuovo genere di terroristi, che cerca un pubblico globale. E proprio mentre il terrorismo diventava globa­le, così lo diventava il calcio. A partire dagli anni novanta, il gioco ha conquistato le frontiere ultime: Stati Uniti, Giappone, Cina, don­ne. Si è lasciato alle spalle tutti gli altri sport. Soprattutto i Mondiali, grazie alle antenne satellitari, sono stati diffusi nei luoghi più sper­duti. Ogni finale della Coppa del mondo diventa di volta in volta il programma televisivo più guardato nella storia globale.
Era inevitabile che prima o poi il torneo attirasse i terroristi. Il 3 marzo del 1998 molti membri di un gruppo terrorista algerino furo­no arrestati durante un blitz in una casa in Belgio. Il 26 maggio la polizia fece irruzione nelle case di dozzine di sospetti. Quasi cento persone in numerosi paesi europei furono portate nei commissariati per essere interrogate. «Si trattava di una questione urgente» dichia­rò più tardi quel giorno un portavoce del governo francese. «Adesso possiamo affrontare la Coppa del mondo con maggiore serenità.»
All' epoca, il terrorismo era considerato una sorta di scocciatu­ra, e l'episodio fu presto dimenticato. La polizia europea non disse mai molto di più a riguardo. Tuttavia, il complotto contro i Mondiali è raccontato nei dettagli del libro - passato curiosamente sotto silen­zio - Terror on the Pitch, di Adam Robinson, pseudonimo di un gior­nalista che lavora in Medio Oriente.