martedì 24 giugno 2008

Simon Kuper - CALCIO E POTER


Calcio e potere, binomio quasi scontato.
Penso che anche un bambino delle elementari alla domanda “ cosa assoceresti alla parola calcio”, risponderebbe “potere”. No mi correggo direbbe Soldi ma comunque penso che cambi poco.
Il problema non sta nel fatto di sapere che calcio e potere vadano a braccetto, ma è sapere IN CHE MISURA ciò avviene.
Leggendo questo libro, potrete vedere le atrocità commesse in Argentina quando ospitò e vinse la coppa del mondo. Dalla più semplice partita comprata per passare il turno, alle migliaia di persone torturate e uccise per nascondere la vera realtà Argentina. Tutto questo per poter dare lustro e visibilità ad una nazione, per sponsorizzare il proprio regime!!!!
Potrete vedere la tragicomica situazione dell’africa, tra superstizioni, riti magici e capi di stato che si sostituiscono ai C.T.
Oppure di come i brasiliani nel 93 dissero che avrebbero deciso chi votare solo dopo aver saputo chi fossero i campioni del mondo.
Infine, potrete leggere di come un capo di stato abbia costruito la sua ascesa al potere partendo dalla rifondazione di una squadra di calcio. Creò una squadra cosmopolita, organizzata e ricca, che sconfiggeva avversari di tutta Europa. Questo era esattamente quello che gli elettori volevano che facesse con lo stato. Stato che fino a quel momento era bloccato a causa della corruzione che “allora” dilagava. Così, presentandosi alle elezioni come capo di un partito il cui nome era più simile ad un coro da stadio, vinse a mani basse.
Indovina indovinello, di chi si sta parlando?
“Questa è la storia politica e sociale dello sport più popolare del mondo. Un racconto sul campo che tiene insieme il consenso a Mussolini e l'ascesa di Berlusconi, l'indipendentismo basco e catalano, lo scontro religioso in Irlanda tra Celtic e Rangers, i traumi della Seconda guerra mondiale tra Germania e Olanda, la contrapposizione tra squadre borghesi e popolari. Perché il calcio è molto più di un gioco: è uno spazio simbolico dove prendono forma e si sfogano l'appartenenza e l'avversione. Può essere usato da dittatori e politicanti, accendere rivoluzioni o salvare regimi.”

GIOCO GLOBALE, JIHAD GLOBALE

Agli inizi del 1994 Osama bin Laden passò tre mesi a Londra, dove fece visita ai suoi sostenitori e anche ai banchieri, e andò per quattro volte a vedere giocare l'Arsenal. Bin Laden era cresciuto in mezzo al calcio per la maggior par­te della sua vita. Invero, fu proprio il gioco ad avvicinalo per la pri­ma volta al fondamentalismo: da adolescente, nella città saudita di Gedda, bin Laden fu uno dei ragazzi che il professore siriano persua­se a restare a scuola il pomeriggio, grazie alla promessa di fadi gioca­re a calcio. Poi, come scritto da Steve ColI sul New Yorker del dicem­bre 2005, il siriano li educò secondo una variante violenta dell'lslam. I.;amore di bin Laden per il calcio non gli impedì di partecipare a un complotto per massacrare le Nazionali statunitense e britannica du­rante i Mondiali del 1998; eppure, dopo il viaggio a Londra, raccon­tò agli amici di non avere mai visto una passione simile a quella dei tifosi del calcio.
È possibile che oggi il calcio non abbia in nessun luogo un'impor­tanza maggiore di quella che riveste in Medio Oriente e nell' Afri­ca del Nord. Ai terroristi di quelle zone il gioco deve sembrare un intrattenimento perfetto: una passione tradizionalmente maschile e asessuata, dall'estensione globale e spesso oggetto di dispute tra tri­bù contrapposte. I dittatori locali, che nel resto del mondo sono una razza in via d'estinzione, sfruttano il calcio per ottenere prestigio. E in quelle dittature, se cercate il dissenso, andate allo stadio.[...] Per un uomo giovane in Medio Oriente, obbligato a passare il proprio tempo libero in compagnia di altri uomini giovani, il calcio è spesso l'unico svago. È per questo motivo che a Tripoli, la capitale della Libia, le partite tra le due squadre principali attirano una folla di centomila persone, ossia più di qualsiasi città in Europa.[…]
Alla famiglia di Saddam lo sport piaceva. Ogni aprile, per fe­steggiare il suo compleanno, si tenevano a Baghdad le Olimpiadi di Saddam. Non le avrete mai viste su Fox Sports, ma nella loro ultima edizione, nel 2002, con la Società per l'amicizia russo-irachena co­me sponsor, queste attirarono atleti da settantadue Paesi. Forse ispi­rato da questo fatto, l'Iraq di Saddam stava concorrendo per ospita­re i Giochi Olimpici del 2012. [...]Tuttavia, il presidente delegava principalmente al figlio Uday la gestione dello sport. Un misto tra un playboy e un torturatore, para­lizzato dalla vita in giù in seguito a un tentativo di omicidio subìto nel 1996; Gestiva la Federcalcio irachena, il Comitato olimpico iracheno e anche la prigione nel palazzo del Comitato olimpico nazionale, in cui gli atleti che ottenevano risultati scarsi venivano torturati. Molti atleti iracheni abbandonarono lo sport per paura. Un membro del­la Nazionale di calcio durante l'era di Uday raccontò di essere stato picchiato sulle piante dei piedi, trascinato con la schiena nuda sulla ghiaia, e quindi chiuso in un serbatoio delle fogne così che le sue fe­rite si infettassero. Altri fuggiaschi hanno raccontato storie analoghe. Issam Thamer al-Diwan, in passato giocatore iracheno di pallavolo che adesso vive negli Stati Uniti, ha raccontato a Sports lllustrated di avere con sé una lista di cinquantadue atleti che egli afferma essere stati uccisi dalla famiglia di Saddam.
La Fifa inviò una commissione in Iraq perché investigasse sulle accuse di tortura. Gli iracheni fornirono alla commissione giocatori e allenatori, che giurarono ciecamente che quelle accuse erano tutte menzogne. La Fifa se la bevve, e così all'Iraq di Saddam fu permes­so di giocare nel calcio internazionale. […]
La Libia è il classico esempio di paese in cui l'unico rifugio sicuro per la liber­tà di espressione è lo stadio di calcio. Nel, 1999 il Dipartimento di stato degli Stati Uniti riportava che «l'ultima esibizione di pubblico scontento e risentimento nei confronti del governo [libico] si è avuta quando il 9 luglio 1996, durante una partita di calcio a Tripoli, ci fu­rono disordini scatenati dall'assegnazione di un calcio di rigore. La rara istanza di disordini pubblici ebbe origine quando fu segnato un gol sospetto dalla squadra per cui tifavano i figli di Gheddafi e l'ar­bitro amministrò il gioco in loro favore». I tifosi iniziarono a cantare slogan anti Gheddafi, al che i figli del dittatore e le loro guardie del corpo iniziarono a sparare […]
Fu però soltanto in seguito che il calcio in Libia assunse quella sfumatura politica che non si trova in nessun altro luogo. Più o meno allo scoccare del nuovo millennio, Saadi, figlio del colonnello, deci­se che voleva giocare in Nazionale. All'epoca, non giocava nemmeno in una squadra di club; essendo segretario della Federcalcio libica, il suo giocare avrebbe costituito un mancato rispetto del severo codice etico libico, così assunse un allenatore privato olandese.
Saadi investì nel calcio una buona parte della ricchezza petrolife­ra della Libia. Gli stadi spuntavano dal suolo proprio come il petro­lio. Dietro consiglio dell' amico e mentore di Saadi Diego Maradona, Carlos Bilardo, che era stato allenatore dell' Argentina per la Coppa del mondo del 1986, fu chiamato a gestire la Nazionale. Lo sfortuna­to corridore Ben Johnson (che pare sia il peggior giocatore di calcio del mondo) divenne invece il preparatore atletico.[…]
Alla fine, come così tanti grandi giocatori, andò a parare nella Serie A italiana. Iniziò nel Perugia, nelle cui file disputò una parti­ta, ma fu presto estromesso per aver assunto droghe. (Può darsi che avesse seguito i consigli di Maradona e Ben Johnson.) Malgrado ciò, l'Udinese fu felice di essere la squadra successiva a metterlo sotto contratto. Saadi e il suo entourage occuparono il più lussuoso hotel di Udine (che per qualcuno abituato a disporre delle rendite petrolifere del proprio paese non significa neanche spendere molto). Registrata una sola presenza nei ranghi udinesi, si è trasferito alla Sampdoria, presieduta dal «collega petroliere» Riccardo Garrone. Si pensa che Saadi dia alle squadre che lo accolgono qualche eu­ro, contrariamente alla tradizione che vuole che sia la squadra a pa­gare i propri giocatori. Ma la compagine italiana che ha preso più sol­di dal petrolio libico è stata la Juventus. Nel 2002 il padre di Saadi acquistò una quota azionaria della squadra torinese. I Gheddafi fir­marono tre anni dopo un contratto decennale da 240 milioni di euro per fare pubblicità alla compagnia petrolifera libica, la Tamoil, sulla maglia della Juve. Si trattava del più grande accordo della storia del calcio per la pubblicità su una maglietta, forse i Gheddafi, legandosi a una delle istituzioni più popolari di tutta Italia, speravano di guadagnarsi la benevolenza del paese la prossima vol­ta che la Libia avesse litigato con gli Stati Uniti.[…]
Per lungo tempo i terroristi sono stati affascinati dal calcio. Per loro si tratta di qualcosa di più che un semplice passatempo. Le due stra­de hanno una serie di somiglianze. Far parte di una squadra di cal­cio è un tipo di legame maschile non del tutto diverso da quello che si stringe facendo parte di una cellula del terrorismo islamico. In en­trambi i gruppi, giovani uomini tendono a sviluppare un atteggiamen­to «noi contro il mondo». Non sorprenderà che la squadra di calcio palestinese della moschea lihad a Hebron avesse il doppio ruolo di incubatrice per attentatori suicidi: cinque dei suoi giocatori si fece­ro esplodere per attaccare obiettivi israeliani.
Ma l'attrattiva principale che il calcio esercita sui terroristi è la diffusione globale del gioco. Il terrorismo è una forma di pubbliche relazioni. L'obiettivo è diffondere la maggior paura possibile con il minimo sforzo. Per fare ciò, i terroristi cercano i luòghi e gli eventi più pubblici che ci siano. Quindi lo sport. È per questo che il gruppo palestinese Settembre Nero rapì e uccise undici atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco del 1972. Grazie a recenti miglioramenti nel­la tecnologia satellitare, centinaia di milioni di persone videro l'or­rore in diretta tv.
Louis Mizell, in passato agente speciale e ufficiale di intelligen­ce del Dipartimento di stato, mi raccontò nel 2005 che da Monaco in poi aveva registrato 171 attacchi terroristici nel mondo dello sport. Quando degli assassini anticastristi fecero esplodere l'aereo che tra­sportava la Nazionale cubana di scherma nel 1976, può darsi che non stessero pensando soprattutto allo sport, ma i terroristi a venire sì. Sono molte le atrocità che oggi vengono a malapena ricordate: i 20 soldati filippini uccisi durante una corsa nel 1987, dopo che dei ter­roristi che si fingevano volontari passarono loro dell' acqua avvelena­ta; o la canadese uccisa da una mazza di softball manomessa durante un torneo in Cile nel 1990. Forse la peggiore atrocità fu l'abbattimen­to da parte della Corea del Nord di un aeroplano di linea sudcoreano nel 1987, che uccise tutti e 115 i passeggeri. «L'obiettivo era quello di destabilizzare i Giochi olimpici di Seul del 1988» mi rivelò Mizel, che aveva lavorato sul caso. Ma aggiunse: «Lo sport che da solo è il più attaccato è il calcio, perché è il gioco più famoso del mondo».
Negli ultimi anni è apparso un nuovo genere di terroristi, che cerca un pubblico globale. E proprio mentre il terrorismo diventava globa­le, così lo diventava il calcio. A partire dagli anni novanta, il gioco ha conquistato le frontiere ultime: Stati Uniti, Giappone, Cina, don­ne. Si è lasciato alle spalle tutti gli altri sport. Soprattutto i Mondiali, grazie alle antenne satellitari, sono stati diffusi nei luoghi più sper­duti. Ogni finale della Coppa del mondo diventa di volta in volta il programma televisivo più guardato nella storia globale.
Era inevitabile che prima o poi il torneo attirasse i terroristi. Il 3 marzo del 1998 molti membri di un gruppo terrorista algerino furo­no arrestati durante un blitz in una casa in Belgio. Il 26 maggio la polizia fece irruzione nelle case di dozzine di sospetti. Quasi cento persone in numerosi paesi europei furono portate nei commissariati per essere interrogate. «Si trattava di una questione urgente» dichia­rò più tardi quel giorno un portavoce del governo francese. «Adesso possiamo affrontare la Coppa del mondo con maggiore serenità.»
All' epoca, il terrorismo era considerato una sorta di scocciatu­ra, e l'episodio fu presto dimenticato. La polizia europea non disse mai molto di più a riguardo. Tuttavia, il complotto contro i Mondiali è raccontato nei dettagli del libro - passato curiosamente sotto silen­zio - Terror on the Pitch, di Adam Robinson, pseudonimo di un gior­nalista che lavora in Medio Oriente.

lunedì 26 maggio 2008

Jack London - LA SFIDA

Se vi state chiedendo chi sia Jack London, pensate a qualche titolo di libro letto da ragazzino (per chi non legge, gli stessi titoli ci sono anche in film).
Titoli come Zanna Bianca, Il richiamo della foresta….bellisimi , li ho ancora!

Il libro di cui voglio parlarvi, è costituito da tre brevi racconti. Unico filo conduttore, la boxe.
Furono scritti tra il 1904 e il 1913, periodo durante il quale London visse un’intensa passione per questa disciplina.
I protagonisti dei racconti, sono uomini in lotta con se stessi e con il proprio destino, piuttosto che con un avversario in carne ed ossa.
Uomini, positivi o negativi che siano, in cerca di una rivalsa sociale.
Direi assolutamente da leggere, questi racconti sono un piccolo capitolo della storia della letteratura americana.
Ecco un brevissimo assaggio de “Il MESSICANO” .Dei tre, il mio preferito, forse perché tocca un tema molto importante e serio, la rivoluzione.

P.S. Grazie Robbie! finalmente te lo posso restituire!!

…..«Sicuro che può, e in aggiunta darà a Ward un mucchio di grane. Non conosci quel ragazzo. lo sì. L'ho scoperto io. Non ha cotenna. E un demonio. E uno strambo diavolo a quattro, se qual- cuno dovesse chiedertelo. Farà star su dritto Ward con una dimostrazione di talento indigeno che farà star su dritti tutti voi altri. Non dico che batterà Ward, ma metterà in piedi un tale spettacolo che tutti voi riconoscerete che è uno che si farà.»«Benissimo.» Kelly si volse al suo segretario. «Dà uno squillo a Ward. Gli ho detto di farsi vedere se pensavo che ne valesse la pena. E proprio qui di fronte, allo Yellowstone, a mostrare il petto e a guadagnarsi popolarità.» Kelly si rigirò verso l'allenatore: «Bevi una cosa?».Roberts sorseggiò il suo whiskey con soda e si sbottonò. «Non ti ho mai raccontato come scoprii quel furfantello.
Fu un paio d'anni fa che si fece vedere alla palestra. Stavo preparando Prayne per il combattimento con Delaney.
Prayne è cattivo. Non ha un briciolo di pietà in allenamento. Aveva riempito di colpi il suo preparatore in modo piuttosto brutale e non riuscivo a trovare un ragazzo volenteroso che lavorasse con lui. Avevo notato questo piccolo messicano denutrito che si aggirava nei paraggi, ed ero disperato. Così lo afferrai, gli infilai a forza i guantoni e lo sbattei sul ring. Era duro e tosto come il cuoio, ma debole. E non sapeva neanche dove stava di casa il pugilato. Prayne lo fece a brandelli. Ma quello resistette per due round nauseanti, prima di crollare. Fame, era tutto lì. Riempito di botte? Non saresti riuscito a riconoscerlo. Gli detti mezzo dollaro e un pasto completo. Avresti dovuto vederlo mentre lo divorava. Non aveva mangiato un boccone da un paio di giorni. Prima e ultima volta che lo vedo, mi dico. Ma il giorno dopo si ripresenta, rigido e dolorante, pronto per un altro mezzo dollaro e un pasto completo. E migliorava col passare del tempo. Proprio un combattente nato, e duro che non ci si crede. Non ha sentimento. E un pezzo di ghiaccio. E non ha mai detto più di dieci parole in fila da quando lo conosco. Bada ai fatti e svolge il suo lavoro.»«L'ho visto», disse il segretario. «Ha lavorato un sacco per te.» «Tutti i grandi ragazzetti si sono allenati con lui», rispose Roberts. «E lui ha imparato da loro. Ne ho visti alcuni che poteva battere. Ma il suo ideale non era lì. Ho capito che il gioco non gli è mai piaciuto. Almeno così sembrava comportarsi.»«Negli ultimi mesi ha combattuto un po' contro i piccoli club»,disse Kelly. «Sicuro. Ma non so che gli è preso. Tutto all'improvviso gli è venuta voglia. Semplicemente è esploso fuori come un lampo e ha fatto pulizia di tutti i ragazzetti della zona. Sembrava che volesse i soldi, e ne ha vinti un po', anche se i suoi abiti non lo dimostrano. E particolare. Nessuno conosce gli affari suoi. Nessuno sa come passa il tempo. Anche quando è sul lavoro, pianta su e sparisce per la maggior parte di ogni giornata appena il lavoro è fatto. Talvolta semplicemente scompare per settimane intere. Ma non accetta consigli. Sarebbe una fortuna per chi riuscisse a ottenere il compito di amministrarlo, ma lui non lo prende in considerazione. E lo vedi tener duro sul denaro in contante quando si viene al contratto.».

Dean Karnazes- ULTRAMARATHON MAN

Una maratona.
42 km.
4200metri.
Più di 2 ore di sofferenza (per pochi campioni), dalle tre ore in su per il popolo tapascione (comunque ancora pochi).
Il pensiero di corre più 5 km non mi ha mai allettato, ho sempre guardato con ammirazione chiunque fosse riuscito a portare a termine una maratona, ma la persona di cui voglio parlare riesce a far passare in secondo piano anche le prestazioni degli ironman.
Un piccolo elenco delle sue prove:
Ha corso a 50° e a 40 sottozero. Nel deserto della Valle della Morte e al Polo Sud. Ha corso senza fermarsi per 400 chilometri, l'equivalente di dieci maratone……devo continuare?
Ok!
L’ultima impresa è stata correre 50 maratone in 50 stati differenti in 50 giorni consecutivi, concludendo con la maratona di New York con un tempo di 3h e 30’.
Pazzesco, o pazzo , non lo so. Non mi interessa e non lo voglio giudicare . Potrebbe essere un pazzo esibizionista masochista, o un semplice uomo che è riuscito a trovare il suo equilibrio mentale solamente massacrandosi di km(come si dice, le strade del sig….).Giudicate voi, leggetelo e fatevi un idea.
Lui si chiama Dean karnazes e il suo sito è http://www.ultramarathonman.com/flash/ , dateci anche solo un occhiata!

VI AVVIVSO, C'E' DA LEGGERE TANTO. METTERE L'INIZIO DEL LIBRO MI E' SEMBRATA LA COSA MIGLIORE. QUINDI CHI SI LAMENTA PER IL TROPPO SCRITTO SI BECCHERA' UN BEL VAFFA STEREOFONICO. GUARDATEVI ANCHE SOLO IL SUO SITO, NE VALE LA PENA.
BELLA!!!

Era quasi mezzanotte mentre correvo lungo la strada deserta indossando solo un paio di calzoncini, una canottiera e con un cellulare infilato nella tasca dello zaino. Erano trascorse diverse ore da quando avevo avuto l'ultimo contatto con l'umanità e l'aria della notte era calda e carica di silenzio. La luce della luna piena illuminava i filari di viti che costeggiavano la strada, li sentivo frusciare nella brezza. In quel momento, però, la bellezza del paesaggio non riusciva a distogliermi dal pensiero ossessivo del cibo: avevo una fame da lupi.Solo poco prima avevo ingurgitato un piatto di pasta al formaggio, un sacchetto grande di pretzel, due banane, una barretta proteica e un bignè al cioccolato. Ma erano passate tre ore. Avevo bisogno di maggiori quantità di cibo. E ne avevo bisogno subito.TI mio corpo ha una percentuale di grasso inferiore al 5 % ed è scolpito come quello di un pugile professionista, quindi non ho riserve alle quali attingere. La mia dieta è molto rigida: proteine nobili, grassi di qualità, non idrogenati, niente zucchero raffinato, solo carboidrati da metabolizzare lentamente... quella notte, però, dovevo infrangere le regole. Senza un massiccio apporto calorico - hamburger, patatine fritte,gelato, dolci e biscotti - il mio metabolismo si sarebbe fermato di botto, impedendomi di portare a termine la missione che mi ero prefissato.Avevo bisogno di una pizza, grande e ben condita. Ne avevo bisogno in quel preciso momento.TI problema era che nelle ore precedenti non avevo avuto la possibilità di trovare cibo. Correvo in direzione ovest attraversando la zona. più remota di Sonoma, ben al di fuori delle strade più frequentate e, a perdita d'occhio, non c'era nessun posto dove potessi sperare di procurarmi da mangiare. Continuavo ad allontanar- mi dalla civiltà fissando il display del cellulare: le tacchette continuavano inesorabilmente a diminuire, fino a quando non indicarono la totale assenza di campo. Ecco, ora ero tagliato fuori dal mondo. Era quasi mezzanotte ed ero famelico.L'aria della notte era secca e fresca e, a dispetto dei morsi della fame, riuscivo a godermi la tranquillità del- la zona. Era una parentesi di serenità in una vita altri- menti frenetica. In alcuni momenti ero incantato dalla luna piena che illuminava i fianchi delle colline.In altri, invece, ero ossessionato dall'idea di trovare un 7-Elevenl […] Quando raggiunsi la cima della collina notai che il cellulare aveva nuovamente campo, così composi il numero. TI segnale, tuttavia, era debole.«Round Table», rispose una voce giovane. In sottofondo si sentiva musica rock a tutto volume.«Devo ordinare una pizza.»«Cosa vuole? Vuole ordinare una pizza?»Quale altra ragione ci poteva essere per chiamare il numero delle consegne di Round Table? «SÌ, DEVO ORDINARE UNA PIZZA! HO ASSOLUTAMENTE BISOGNO DI UNA PIZZA!»«Ok, non ti scaldare. Non c'è bisogno di urlare.» «Scusa.»«Tranquillo. Lo so come sono irascibili le persone quando si tratta di pizza.» «Non sono irascibile, ho solo fame» dissi in tono molto irascibile. «Ok. Ok. Stai tranquillo. Ti porteremo la pizza più succulenta e ghiotta che hai mai immaginato. Sono il capo. Quale vuoi?» «Hawaiana, con doppia dose di formaggio, olive eprosciutto. Dimenticavo... anche di ananas.» «Tutto doppio? Ci butto tutto sopra. Che misuravuoi?» Era tutt' altro che facile rispondere a questa domanda. Non avevo la possibilità di portarmi dietro gli avanzi, ma se ne avessi ordinata poca avrei finito troppo presto il carburante e non sarei mai riuscito a raggiungere Marin prima dell' alba.«Quella grande per quante persone è?»«Cinque, con tutti quegli extra. Quanti siete?» «Sono da solo. Va bene quella grande.»«Cavolo, amico. Certo che ne hai di fame!»"Se solo sapessi quanta", pensai tra me e me. «Avete il dolce?»«Cheesecake alle ciliegie. È una bomba ne ho assaggiato uno prima.»«Ok. Dammene uno.»«Una fetta?» «No, uno intero.»«Ehi, amico, è storico!»«Quanto tempo pensi che ci voglia?»«Venti, trenta minuti. Hai fretta?»«Non proprio. Starò qui per un po'. Ho bisogno di saperlo solo per dirti dove incontrarci.»«Ok. Diciamo fra venticinque minuti.»«Ci vediamo all'intersezione fra la Highway 116 e la Arnold Drive.» . «Cosa? Proprio all' angolo?», chiese. «È un punto molto isolato. Di che colore è la tua auto?» «Non sono in macchina», risposi. «Ma mi riconoscerai subito. Sarò l'unico che corre.» «Corre?» Ci fu un breve attimo di silenzio. «Qualcuno ti sta inseguendo?»«No» dissi ridendo.«Ma è mezzanotte!», replicò.«Sì, è tardi. Ed ecco perché ho bisogno di una pizza. Sto morendo di fame.» «Ho capito.» Pausa lunga «È plausibile. Ti possoportare qual cos' altro?»«C'è uno Starbucks in città?»«Sì, ma è sicuramente chiuso a quest'ora. Però ho qui la mia riserva personale di chicchi. Ti faccio del caffè mentre cuoce la pizza. Tu continua a correre lungo la 116 e prima o poi ti trovo.»Dopo avergli dato il mio numero di cellulare e aver chiuso la comunicazione, chinai nuovamente la testa e continuai a correre, rituffandomi nell' oscurità. Se mi avesse raggiunto lungo la strada non avrei avuto alcunbisogno di aspettarlo all'incrocio, il che era un bene. Restare fermo nell' aria fresca della notte era un invito a nozze per i crampi. E i crampi possono essere molto debilitanti.Rimettendo a posto il cellulare nella tasca posteriore dello zaino, tirai fuori la foto di una bimba piccola. Anche se era intubata e se il suo corpicino era infilzato di aghi, il suo volto era vibrante. Eppure era malata. Anzi, a dirla tutta, era prossima alla morte e io mi ero imbarcato in questa corsa proprio per dare un contributo alla sua causa. Lanciai un ultimo sguardo alla foto e la riposi con cura.Esattamente venticinque minuti dopo, un camioncino arrugginito correva a tutta birra lungo la strada. Al volante c'era proprio il giovane capo. .«Ehi! Amico!», urlò balzando fuori dall'auto. «Sei pazzo. È spaventoso!»Estrasse la pizza dal sedile del passeggero e aprì la scatola. La pizza era un'opera d'arte: alta almeno quanto era larga, con in cima una montagna di ananas e di olive. Sembrava in grado di sfamare un rinoceronte. Pagai il conto, lo ringraziai e mi preparai ad attaccarla.«Continui a correre?» chiese. «Vuoi uno strappo?» «Ora che ho il carburante», risposi tenendo bene in vista il cibo, «ne faccio buon uso.»«Ma fin dove devi arrivare?»«Sono diretto alla spiaggia», dissi.«La spiaggia!», urlò. «Ehi, amico, ma Bodega Bay è ad almeno 30 miglia (50 km) da qui!» A dirla tutta ero diretto alla spiaggia di Santa Cruz, a oltre 150 miglia (240 km) da lì, ma penso che né io, né lui fossimo preparati ad affrontare quella realtà.«Non penso che sia umanamente possibile correre per 50 chilometri» disse annaspando. «Sei come Carl Lewis, o qualcosa. del genere?»«In un certo senso», risposi. «Sono come Carl Lewis, ma più lento.»«Dove dormi?»«Non dormo.»«Corri per tutta la notte? Ma è follia pura. Mi pia- ce!» Risalì sul furgoncino. «Non vedo l'ora di raccontarlo ai ragazzi giù al negozio.» E ripartì a tutta birra. Mi piaceva quel tipo. La maggior parte delle perso- ne che non corre ritiene questo sport noioso, se non peggio: doloroso e del tutto inutile. Lui, invece, sembrava sinceramente interessato alla mia impresa. Avevamo trovato un punto di contatto quasi primitivo, anche se non mi dava l'idea che avrebbe iniziato a praticare questo sport nell'immediato futuro.Con il cheesecake posato sopra la pizza, ripresi a correre e a mangiare. Nel corso degli anni avevo perfezionato l'arte di mangiare in movimento. Con una mano tenevo in equilibrio la scatola di pizza e il cheesecake, e con l'altra mangiavo. Era un eccellente allenamento per la parte superiore del corpo. Fortunatamente i miei avambracci erano ben sviluppati e non avevano problemi a sostenere il peso in più. Per maggiore efficienza arrotolai insieme quattro pezzi di pizza, come fosse stato un enorme burrito: così erano anche più facili da addentare.Proprio mentre stavo finendo la prima portata riconobbi la marmitta del camioncino in avvicinamento - era decisamente andata. li tizio aveva dimenticato di darmi il caffè. Riempimmo con la bevanda scura una delle mie bottigliette di acqua e bevvi il resto. Quandomisi mano alla tasca, lui rifiutò il pagamento e, mentre stava per andare via, il giovane sporse fuori la testa dal finestrino e mi chiese: «Ehi, amico, ti dispiace se ti chiedo perché lo fai?».Da dove avrei potuto cominciare? «Amico», gli risposi, «ne riparleremo. È una lunga storia.»Ed ecco che è arrivato il momento di analizzare questa domanda. Milioni di persone corrono. Lo fan- no come esercizio fisico, per tenere sotto controllo il proprio sistema cardio-vascolare, per la produzione di endorfina, definita anche "l'essenza del piacere" o "l'oppio naturale del corpo"; Nel 2003 un numero record di persone ha completato una delle numerose maratone del paese: ben 460.000, spingendo i limiti della propria resistenza per terminare i 42 chilometri del percorso.Esiste poi uno zoccolo duro di adepti, una sorta di gruppo underground di maratoneti, che vengono chiamati gli "ultramaratoneti". Per noi una maratona è solo un esercizio di riscaldamento. Facciamo gare da 50-100 miglia (80-160 chilometri). Corriamo per 24 ore e più senza concederci nemmeno una pausa per dormire, fermandoci il minimo indispensabile per mangiare e bere e per espletare i bisogni fisiologici. Saliamo e scendiamo di corsa dalle montagne, attraversiamo la Valle della Morte in piena estate, corriamo al Polo Sud. Spingiamo corpo, spirito e mente ben al di là di quelli che la maggior parte degli esseri umani considererebbe i limiti del dolore e dello sforzo.Sono uno dei pochi che ha corso più di 100 miglia senza riposarsi, il che suppongo faccia di me un ultra- maratoneta. O solo un pazzo. Ogni volta che le persone sentono che ho corso per 160 chilometri in una so- la volta fanno sempre, inevitabilmente, due domande. La prima è: «Come fai?». La seconda, alla quale è ben più difficile rispondere, è la stessa che mi ha fatto l'uomo della pizza: «Perché lo fai?».È un' ottima domanda, anche se è difficile definire una forma di dipendenza. Quando, ad esempio, chiesero a George Mallory perché voleva essere il primo uomo a scalare il monte Everest, lui rispose con la fra- se laconica, passata poi alla storia: «Perché è lì». Ed è sembrata una risposta talmente soddisfacente, da diventare un famoso adagio. Ma, a dire il vero, questa non è affatto una risposta.Quando la gente mi chiede perché corro notti intere, coprendo distanze così lunghe, spesso sono stato tentato di rispondere semplicemente: «Perché ci riesco». Gli atleti non sempre sono famosi per le loro capacità introspettive. Ma questa risposta è decisamente incompleta. Non soddisfa nemmeno me. lo ho le mie domande.Da cosa sto correndo?Per chi sto correndo?Verso cosa sto correndo?Ogni maratoneta ha la sua storia. Questa è la mia.

sabato 15 marzo 2008

Spiro Zavos - L'ARTE DEL RUGBY

Il rugby, una costola del calcio, uno sport praticato da pochi ma che non ha nulla da invidiare al suo fratello maggiore.
Confrontando notorietà è ricchezza che i due sport possono portare,è il calcio ad avere la meglio,ma solo perché è venuto prima al mondo.
Il calcio quindi ha vinto, ed è diventato molto ricco. Ma dove c’è la ricchezza spesso si annida lo schifo.
E’ triste vedere uno sport come questo che solo in Italia non riesca ad attecchire. Dico solo in Italia perché uscendo dai nostri confini la sua popolarità ha un’impennata vertiginosa!!
Per me non è uno sport di squadra, è LO sport di squadra!
15 giocatori,15 fisici differenti, 15 elementi con caratteristiche fisiche e tecniche diverse ma tutte rivolte allo scopo di far vincere la SQUADRA.
Il singolo molto difficilmente può risolvere la partita e deve comunque essere costantemente supportato da tutta la squadra. Tutta deve avanzare in attacco, tutta deve tornare in difesa.
La palla, tramite passaggi rigorosamente all’indietro (questo è il bello del rugby!),deve essere posata personalmente otre la linea bianca di meta; una linea difesa ferocemente da 15 frigoriferi dalle sembianze umane.
E’ un combattimento di trincea, si attacca costantemente e direttamente la linea difensiva.
Richiedendo quindi un elevato livello di organizzazione ,le partite di rugby vengono spesso paragonata a partite di scacchi giocate con pezzi enormi che possono fracassarsi tra loro!
Mi fermo perché voglio dare ampio spazio alle parole del libro inserendo 2 parti. La prima è l’inizio del libro. Tramite le parole di Spiro Zavos (giornalista neozelandese) cerchiamo di capire le regole base di questo complicato sport.
La seconda parte, è un colloquio con Pierre Berbizier (francese) ex allenatore della nazionale azzurra ,che chiude il libro.Non rompete troppo le palle se c’è tanto da leggere! Ho cercato di mettere il meno possibile per non sovraccaricare le vostre cellule neuronali, ma più di tanto non ci sono riuscito. Se siete minimamente interessati all’argomento, fate questo sforzo e vedrete che ne varrà la pena!
ECCO A VOI LE DUE PARTI:
Il rugby non ha regole (rules), ma leggi (laws). E il dettaglio linguistico è rivelatore dell'idea condivisa del gioco, del rapporto tra il singolo (giocatore e spettatore) e l'evento collettivo di cui è partecipe.Durante la partita, la «punizione» per il giocatore che ignora le «leggi» del rugby e la «punizione» che ne deriva è in ragione della sua buona o cattiva fede, della sua semplice negligenza o del dolo, della sua «recidività» nell'errore. Nulla è meno tollerato nel gioco di una «legge» persistentemente violata per impedire all' avversario di godere appieno della suo diritto, della sua libertà, di «muovere» correttamente la palla.Le «leggi» sono molte e dettagliate, almeno se si sta alle 200 pagine e alle I4 sottosezioni del «codice» della Federazione internazionale (Irb, International Rugby Board). Ma come in ogni sistema democratico, non si è. tenuti a conoscerle tutte. Per chi guarda e chi gioca (non per chi arbitra) è sufficiente avere assimilato i principi della Costituzione del gioco. In fondo, pochi.- Si gioca sempre dietro la palla. Chi le è davanti è in fuorigioco e se ne deve disinteressare fino a quando chi ne è in possesso non lo avrà sopravanzato.- Non si placca, o comunque non si aggredisce, né siostruisce il movimento e la corsa dell'uomo senzapalla.- Si placca l'uomo con la palla dalle spalle in giu. Mai al collo. Il giocatore si considera placcato una volta a terra e a quel punto dovrà immediatamente liberarsi della palla, passandola o rilasciandola sul terre- no in modo tale che possa essere raccolta o contesa dai giocatori delle due squadre ancora in piedi. L'ostruzione volontaria della palla con il peso del proprio corpo è considerato fallo di punizione.- Si passa la palla solo all'indietro. Non è mai ammesso il passaggio in avanti, volontario o involontario che sia.- Si calcia la palla solo in avanti. Per guadagnare terreno. Per cercare di segnare tra i due pali della por- ta. Per lanciare un giocatore verso la meta.- All'interno delle mischie spontanee (ruck e maul) e ordinate (scrum) la palla che è sul terreno può esse- re recuperata solo utilizzando i piedi. Può essere rac- . colta con le mani solo quando la mischia spontanea è conclusa.- Nelle mischie ordinate (scrum) e nelle rimesse laterali (lineout o touche), la palla va sempre introdotta (o lanciata) nel mezzo.2. La squadra: «avanti J «mediani» e «tre quarti» .Nel rugby, i giocatori passano e le maglie restano. Come i numeri. Che dunque non si scelgono, né si personalizzano, né vengono «ritirati» in una bacheca del club in omaggio a un grande campione che appende gli scarpini al chiodo. (A Twickenham, il tempio del rugby inglese, nel tunnel di ingresso al campo, una scritta murale ricorda ai giocatori di non dimenticare chi, prima di loro, ha vestito quelle stesse maglie). I numeri sono in rigida scala numerica. Dall'I al 15. Perché, appunto, il numero che hai sulle spalle non dice chi sei, ma cosa ci stai a fare in campo.

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Racconta Berbizier che il giorno in cui gli consegnarono le chiavi del rugby italiano per provare a dargli un'identità trovò il modo di dire tutto questo allo spogliatoio della Nazionale sollecitando una scommessa. «Conoscevo si e no due parole della vostra lingua. E cosi mi feci aiutare a mettere insieme un pensiero e dissi: "Buongiorno a tutti. Mi chiamo Pierre Berbizier e vi prometto che proverò a imparare l'italiano, perché mi dicono che per un francese è semplice. Dunque, vi propongo una sfida: se io riuscirò a parlare la vostra lingua, voi riuscirete a giocare a rugby ad alto livello. Perché anche questo è semplice" ».Ora ride di gusto Berbizier. Si compiace del paradosso, perché ne conosce la natura. «È vero. Essere semplici è difficilissimo. Non solo nel rugby. Significa conoscenza profonda delle basi del gioco, capacità di esecuzione dei fondamentali sotto la pressione dell' avversario. Ma se vuoi vincere, devi essere in grado di fare per ottanta minuti, con continuità, tre cose semplici: conquista della palla e del terreno, mantenimento del possesso, difesa. Se vuoi vincere, devi ricordarti di che cosa è fatto questo sport: corsa, placcaggi, passaggi, gioco al piede. Che sono cose semplici e allo stesso tempo difficilissime da fare se ripetute con continuità. Devi ricordati che gli avanti esistono per conquistare la palla, i tre quarti per usarla. Che l'ovale è un tesoro e non va sprecato. Mai».Il resto verrà da solo. «La folie, l'estro, l'improvvisazione, si costruisce sulla semplicità. Soprattutto, la folie non significa frenesia. Significa iniziativa e non rischio. L'iniziativa è una scelta individuale, condivisa e sostenuta da un collettivo. Il rischio è un' azione individuale che il collettivo non comprende e non sostiene. L'iniziativa fa crescere una squadra e la rende imprevedibile. Il rischio la rende vulnerabile e la divide, lasciando il singolo che lo ha assunto. inutilmente sopraffatto».Lavorare su gente come noi, gli italiani, su un'indole profondamente individualista e un comportamento che confonde azzardo con estro, fantasia con anarchia, non deve essere stato semplice. Berbizier si stringe nelle spalle. «Non so se l'identità di questo gruppo che si è creato nella Nazionale può definire o ha aiutato a definire il rugby italiano per ciò che è oggi e per ciò che promette di essere domani. So che nel modo,!.di giocare una partita di rugby, c'è molto, se non tutto, di un Paese, della sua gente. Prendiamo gli inglesi, come anche gli australiani. Affrontano una partita con l'approccio analitico di un esercizio di logica. Anche le variabili fanno parte di una preordinazione. Fuori dagli schemi, da un "programma", non c'è gioco concepibile. Il contrario di noi francesi, che non rinunciamo mai a un approccio globale. L'Italia non fa differenza. Al giocatore italiano piace la lotta. È generoso fino allo sfinimento. Ma per funzionare ha bisogno di un sitema di gioco. Di quella semplicità che vado predicando e che qui diventa disciplina e autodisciplina. Lo dico e non mi stanco di ripeterlo anche e soprattutto a giocatori di alto livello. Nel rugby ci sono tutti i valori della vita e su questi ciascuno di noi deve misurarsi».Per questo, nel rugby, si comincia dalla testa, prima che dai muscoli. «È il solo sport collettivo in cui continua a essere espressa una differenza fisica tra i giocatori. Che deve essere presente a ciascuno. Una differenza nell'uguaglianza. Che ne fa uno sport democratico e per persone intelligenti. C'è il piccolo e c'è l'alto, c'è il magro e il grasso. Se si guarda ad altri sport di squadra il calcio, la pallavolo, il basket gli atleti sembrano tutti uguali. Quasi noncogli differenze. Nel rugby no. Siamo tutti uguali perché indossiamo la stessa maglia. Ma siamo profondamente diversi per quel che a ciascuno di noi è chiesto di fare in campo in ragione del nostro fisico, delle nostre capacità. Della nostra testa».Alla testa di un giocatore, Berbizier chiede «passione, intelligenza, lucidità». «Sembrano concetti generici, banalmente condivisibili. Ma forse non sono poi cosi ovvi. Ogni azione, nel rugby, è sempre la diretta conseguenza dell'osservazione. Non esistono gesti riflessi. Sequenze preordinate. Si gioca con la testa alta. Chi ha la palla e chi non ce l'ha. È fondamentale comprendere cosa farà l'avversario, anticiparne le mosse. Poi, si potrà anche abbassare la testa e darci dentro. Perché nel rugby, spesso, la testa va abbassata. Eccome se va abbassata. Ma dopo, non prima».Osservazione e contatto. Nell'afferrarsi di corpi, nel cozzo sordo delle prime linee in mischia, nella sopraffazione fisica della resistenza dell'avversario, nella lotta per strappare e riconquistare la palla, il rugby esalta la sua fisicità. Esorcizza e scongiura la violenza (nel suo libro di memorie Winning, Clive Woodward, allenatore della nazionale inglese campione del mondo nel 2003, riferisce che secondo le stime del suo staff medico al termine degli ottanta minuti di una partita, un giocatore, quale che sia il suo ruolo, è in una condizione fisica paragonabile al sopravvissuto a un'incidente stradale a una velocità di cento chilometri orari). «Chi non conosce questo sport può essere indotto a confondere la combattività con l'aggressività e dunque a concludere che il rugby è violento. E non è una confusione propria dei soli neofiti. È una differenza che spesso va resa chiara anche a chi il rugby lo gioca da un po'. Il confine tra la combattività e l'aggressività è l'intelligenza. Un giocatore intelligente è combattivo, determinato, ma mai aggressivo. Chi è aggressivo non è lucido. E chi non è lucido diventa violento. Non rispetta le leggi del combattimento. Compie gesti inutili, pronuncia parole altrettanto inutili. Non rispetta l'avversario e dunque non rispetta se stesso. Non rispettando se stesso, danneggia i suoi compagni. Se sei un giocatore combattivo, se in campo hai dato tutto quel che avevi, sai che saper perdere è un altro modo di vincere una partita, perché vuoI dire riconoscere che chi hai avuto di fronte è stato migliore di te. È riuscito in ciò in cui tu hai fallito. Se sei un aggressivo, un violento, faticherai a vincere e non saprai mai perdere. Non sarai mai un giocatore di rugby»….

domenica 10 febbraio 2008

Stefano Benni BAR SPORT


Con il consueto ritardo, eccomi a voi con la proposta mensile!

Per questo mese voglio cambiare decisamente genere: niente romanzi storici o autobiografici; per il nostro appuntamento mensile, questa volta, volevo proporvi qualcosa di leggero e divertente, una chicca speciale per una breve pausa giornaliera dagli impegni quotidiani.
Il libro in questione è BAR SPORT di Stefano Benni, autore di moltissimi romanzi e libri di racconti (tra i quali BAR SPORT 2000 e LA COMPAGNIA DEI CELESTINI, romanzo contenete la descrizione di un gioco da lui ideato, la “pallastrada”). Come si può notare leggendo i suoi romanzi, i personaggi di queste storie, sono totalmente immaginari, le loro caratteristiche fisiche e somatiche sono al limite dell’assurdo, sono paradossali, estreme a tal punto da diventare delle caricature.
Caricature dentro le quali ,sebbene sia stato pubblicato nel 1976,è possibile vedere riflessa l’immagine della società moderna.

Il libro in questione contiene una ventina di racconti che in qualche modo hanno a che fare con il bar, in particolare il bar sport, presente in quasi tutti i paesi di provincia e non solo; in modo ironico (e a volte decisamente surreale) descrive quei personaggi che qualche volta ci è capitato di incontrare nei bar in questione: tecnici sportivi improvvisati, il nonno da bar, i bimbi e il gelato, il playboy da bar; inoltre descrive tutto quello che caratterizza il bar sport: insegne luminose difettose, i flipper e i giochi a carte dei nonni da bar, i gatti da bar, le paste “stagionate” rinchiuse nelle teche da un numero di anni indefinito e naturalmente. Parla anche di tutte le leggende “metropolitansportive” che in un bar come questo non possono mancare ( da leggere “il grande Pozzi” !!!)

Non voglio togliervi il piacere di curiosare in questo libro, di farvi quattro risate a denti stretti durante una pausa pranzo, per cui vi do giusto un assaggio (chiaramente sportivo come la rubrica mensile richiede).

E adesso, all’urlo di “siamo tutti un po’ tecnici” (e non solo di tipo calcistico ……. giusto per fare della polemicuccia sterile) ecco a voi il consueto assaggio.

Il tecnico da bar, più comunemente chiamato "tenni­co" o anche "professore", è l'asse portante di ogni di­scussione da bar. Ne è l'anima, il sangue, l'ossigeno. Si presenta al bar dieci minuti prima dell'orario di apertu­ra: è lui che aiuta il barista ad alzare la saracinesca. Il suo posto è in fondo al bancone, appoggiato con un go­mito. Lo riconoscerete perché non si siede mai e porta impermeabile e cappello anche d'estate. Dal suo angolo il tecnico osserva e aspetta che due persone del bar ven­gano a contatto. Non appena una delle due apre bocca, lui accende una sigaretta e piomba come un rapace sulla discussione. Nell'avvicinarsi, emette il verso del tecnico: "Guardi, sa cosa le dico", e scuote la testa.
Il tecnico resta nel bar tutta, la mattina: nei rari momenti di sosta tra una discussione e l'altra, studia la "Gazzetta dello Sport". Nell'intervallo per il pasto corre al buffet della stazione, che è sempre aperto, e lo si può vedere mentre col giornale che pende dalla tasca adesca i pendolari cercando di attaccare un bottone su Anasta­si. Normalmente, si ciba solo di aperitivi; olive, patatine fritte e caffè, venti normali e venti hag al giorno. Oppu­re fa un rapido salto a casa e mangia invariabilmente tortelloni, anzi li ingoia dicendo: "Ho fretta, devo andare in ufficio". L'ufficio è il bar, dove il tecnico ricompare al­le due menò dieci per restarvi fino all'ora di chiusura. A mezzanotte, il tecnico torna al bar della stazione, dove aspetta il giornale fino alle quattro, e accompagna a ca­sa tutti gli amici per le ultime discussioni della giornata. Va a letto e parla nel sonno recitando classifiche fino alle sette, sette e mezzo.
Altra caratteristica del tecnico è lo sguardo: guarda sempre con. un occhio chiuso per il fumo e con uno spi­raglio dell'altro, rosso come brace e leggermente lagri­moso, la testa piegata da una parte. Il busto è legger­mente ripiegato in avanti ad abbracciare l'ascoltatore; la mano sinistra mima; con la destra, munita di sigaretta, il tecnico vi dà continuamente delle piccole spinte, o dei colpetti sullo sterno,o vi tiene fermi contro il muro men­tre parla.
Di cosa parla un tecnico? Di calcio, di sport in gene­re, di politica, di morale, di macchine, di agricoltura, di prezzi della frutta, di diabete, di sesso, di trattori, di ci­nema, di imbottigliamento, di spionaggio. In una parola, di tutto. Quale che sia l'argomento trattato, il tecnico lo conosce almeno dieci volte meglio dell' occasionale interlocutore; anzi, dirà, è una delle cose che lo ha inte­ressato di più fin da piccolo. Il vero tecnico suffraga spesso la sua competenza con parentele. Esempio: se si parla di. comunismo, lui ha un cognato che lavora a To­gliattigrad; se si parla di pesca subacquea, ha un fratello fidanzato da sei anni con una cernia; se si parla di edilizia, ha un cugino manovale, e così via. Inoltre, è stato compagno di scuola di tutti i ministri dell'arco Co­stituzionale, che spesso gli telefonano per sfoghi e con­fidenze.
Come parla il tecnico? Il tecnico parla un italiano leggermente modificato Per fare qualche piccolo esem­pio, egli fa precedere molti termini da una a: aradio, agratis, mi amanca. Usa largamente la g: gangio, gabina. Cita largamente dal latino: sine qua non (siamo qua noi) o fiat lux (faccia lei). Usa verbi col congiuntivo tattico: se me lo dicevaste prima, anderei. Rimpasta termini inglesi: croch (cross), frobil (football). Usa termini innestati, esempio: Janich, il vecchio baluastro della difesa rossoblù (baluastro = baluardo + pilastro).
Il tecnico di calcio vive in simbiosi con un altro per­sonaggio, che è "l'uomo con cappello". In tutti i capannelli infatti, se osservate bene, mentre al centro si trova il tecnico, leggermente defilato alla periferia c'è un uo­mo con il cappello calato sul naso e le braccia dietro la schiena. Questo secondo personaggio sembra avere il compito di intervenire con bestialità tremende che fanno perdere le staffe al tecnico. Benché ripetutamente in­vitato dal tecnico a portarsi al centro del capannello, preferisce spostarsi lungo la sua circonferenza parlando da punti diversi, cosicché il tecnico è continuamente ob­bligato a rispondergli girando in tondo.
Tutti sanno che il momento più importante per un tecnico calcistico da bar è quando, il giorno prima di una partita della nazionale, egli deve dare la sua forma­zione. Il tecnico, a questo punto, raduna una ventina di persone e comincia: "In porta, sicuramente, ci metterei Zoff. Terzini Rocca e Fedele”. E spiega il perché della sua scelta: Zoff è una sicurezza. Rocca è meglio di Fac­chetti perché li ha visti tutti e due alla televisione e Roc­ca gli è sembrato più in palla. Infine Fedele l’ha visto al­lo stadio, e correva e fluidificava. _
A questo punto l'uomo con cappello interviene e dice: “Ma cosa dice. Se non stava in piedi". Allora il tecnico racconta, una per una, le ottanta azioni di Fedele della partita precedente. Molto spesso è preparato alla biso­gna e ha con sé un quaderno di appunti. Poi cita a me­moria le cronache dei quattro quotidiani sportivi. Ma ecco che l'uomo con capello, spostatosi a destra, dice
dal tetto di una macchina: "Fedele ha il menisco". Tutti allora si voltano allarmati verso il tecnico, per chiedere spiegazioni. Il tecnico li calma con un gesto della mano e passa in rassegna gli ultimi quaranta casi di menisco del campionato italiano. Spiega brevemente in cosa con­sista l' operazione; anzi, se qualcuno si presta, gli taglia un pezzo di pantalone e lo opera sul marciapiede con un temperino, mostrando agli astanti la funzione dei lega­menti della rotula. Oppure estrae dalla macchina un modello anatomico di ginocchio umano e lo illustra.
Quindi prosegue:
“Stopper Morini, libero Burgnich, mediano sinistro Re Cecconi. Ala destra Mazzola, mezze ali Benetti e Ri­vera, ala sinistra Riva, centravanti Savoldi".
L’uomo col cappello appare da un tombino sulla sinistra e dice: "Savoldi? Siamo matti, Savoldi?".
"E perché?"gli viene chiesto. .
"Perché ha i piedi piccoli."
Allora il tecnico diventa color tecnico adirato, che è una bella sfumatura di rosso usata anche per i tailleur. Poi comincia a urlare tutti i numeri di scarpe dei centravanti italiani dal 1947, come un invasato: “ Meazza 40, Piola 41, Charles 42, Pivatelli40”, dicendo che il piede piccolo, a meno che non sia porcino, non è affatto un handicap.
L’uomo con il cappello ribatte: “Si, ma Savoldi ha il 39”.
“E lei come lo sa?”
“Sono il suo calzolaio.”
(Non è vero. Tutti gli uomini con il cappello sono, oltre che incompetenti, malvagi e bugiardi.)
Allora il tecnico urla: “Lei è un tecnico di serie C”, che in un bar è un’offesa quasi mortale, e l’uomo col cappello replica: “Sono quelli come lei che mandano in rovina la nazionale!” e in breve tempo si azzuffano. La gente li separa. Il tecnico si allontana con aria di superiorità. L’uomo con il cappello, rimasto padrone del campo, dichiara che l’Italia non vincerà mai uno scudetto finchè continua a tenere Pelè in porta. Viene preso, pestato, e mandato via col camion del rusco.

domenica 13 gennaio 2008

Mario Pescante-Piero Mei LE ANTICHE OLIMPIADI

Anche se parecchio in ritardo, eccoci nuovamente al consueto appuntamento mensile con il nostro bel librozzo.Visto e considerato che dal primo di Gennaio, siamo entrati ufficialmente nell’anno OLIMPICO, ho deciso di rendere onore a questo mitico appuntamento proponendo un libro che trattasse e spiegasse le origini di questo “sacro” appuntamento.
Sicuramente molti di voi già conoscono molte cose inerenti alle antiche OLIMPIADI (perché correvano nudi,quali erano le principali discipline praticate …..),Io stesso ho fatto un esame in proposito:”storia dell’educazione fisica”. Nonostante questo ho trovato piacevole leggere nuovamente un libro che trattasse questi argomenti, anche perché qualche cosa me la sono dimenticata e altre piccole chicche non le avevo proprio studiate.
Una delle cose che mi ha interessato maggiormente, è stata la comparazioni delle antiche prestazioni con quelle moderne,facendomi sorgere conseguentemente la naturale domanda : “ma se un antico Olimpionico avesse potuto allenarsi con i mezzi attuali, di quanto le sue prestazioni si sarebbero discostate dalle nostre”? Avere una risposta in proposito sarebbe molto interessante, consentirebbe di capire quanto ci siamo evoluti sia fisicamente, sia come tecniche di allenamento.

Vabbè, basta fare supposte!

Passiamo alla descrizione rapida del tomo:

Non è uno dei più belli che io abbia letto (non mi piace come è scritto, non è una critica ai contenuti. I contenuti sono la storia e la storia non si cambia), la scelta è ricaduta su questo per la sua semplice reperibilità e anche perché nonostante siano oltre 300 pagine, queste corrono via facili facili.
Gli autori, Mario Pescante (mi auguro non abbia bisogno di presentazioni) e Piero Mei ( giornalista per “IL MESSAGGERO”), hanno cercato di toccare più argomenti possibili sviluppandoli in maniera esaustiva. Interessante il capitolo sul ruolo delle donne nei GIOCHI OLIMPICI.

E adesso………….

PARLIAMO DEL PENTATHLON!!

Pentacampeào, come il Brasile del calcio nel 2002: cinque volte campione, o meglio campione di cinque specialità; penta significa cinque, athlos gara. La gara in cinque gare è il pentathlon, che entra nei Giochi olimpici, prima e unica prova multipla, a partire dal 708 avanti Cristo, anno dell'Olimpiade numero 18. Ci vogliono cinque doti per vincere il pentathlon: velocità, agilità, forza, resistenza e coraggio. Bisogna superare tre prove «leggere», come la corsa, il salto in lungo e il lancio del giavellotto, e due «pesanti», come il lancio del disco e la lotta; c'è chi sostiene che non ci fosse il giavellotto ma il pugilato, e chi non il lungo ma il pancrazio: fonti meno attendibili di quelle che invece elencano quelle prime cinque discipline. Il lungo, il disco e il giavellotto non venivano mai disputati come gare a sé, ma facevano parte solo di questa straordinaria prova multipla, che aveva anch'essa un inventore nel mito: Giasone. Giasone, con i suoi Argonauti, era partito alla ricerca del vello d'oro; c'era da ingannare il tempo con le gare, e c'era, tra gli Argonauti, Peleo, il padre di Achille, che era assai forte nella lotta. Giasone, che era più amico di Peleo che non di altri, visto che nel gruppo c'era l'imbattibile nel giavellotto, quel- lo nel disco, quello nella corsa e quello nel lungo, decise di combinare l'insieme; Peleo era bravo in tutto ma bravissimo in niente, bravissimo soltanto nella lotta. Perciò indisse una gara unica che comprendesse le cinque specialità: Peleo poteva difendersi nelle prime quattro e dare il colpo del kappaò nella lotta.Storicamente, il pentathlon rappresenta una evoluzione dello sport: è quasi ovvio sottolineare che nasce più tardi di altre discipline, giacché alcune di quelle comprende; quando arrivò alle Olimpiadi, vide il trionfo degli Spartani che cominciarono con il successo di Lampide appunto nell'Olimpiade numero 18 e che ebbero molti altri olimpionici, fra cui tre consecutivi (26a-27a-28a Olimpiade). Nasceva per ultimo, il pentathlon, e per ultimo veniva disputato nel calendario olimpico, e la lotta, al di là dell'ordine delle altre gare che è tuttora materia di discussione, veniva combattuta per ultima tra le cinque gare. È quel che si evince dall'oc cupazione di Olimpia a opera dei Pisati nel 364: le gare di , corsa si erano già svolte nel dromos e per concludere il pentathlon bisognava recarsi nel ginnasio, dove si teneva la lotta, ha scritto Senofonte. .La corsa era quella dello stadion, la lotta era la lotta greca antica; ci sono dettagli tecnici sulle altre tre discipline che completavano il pentathlon. Il salto in lungo, ad esempio. Il salto in lungo era la tipica attività nata a puro scopo agonistico; aveva delle caratteristiche assai diverse dagli odierni salti in lunghezza: prima di tutto veniva affrontato con degli attrezzi che i salta tori impugnavano, gli halteres; l'intento era quello di agevolare il movimento delle braccia durante la rincorsa e di prolungare la traiettoria del salto al momento dello stacco; gli halteres erano di pietra o di metallo, il loro peso variava da uno a quattro chilogrammi, la forma non era sempre uguale e offrivano facilità di impugnatura con le mani grazie a fenditure che ne facilitavano la presa. «Hanno forma di un semicerchio più ovale che tondo, da potervi infilare la mano, come il braccio nella maniglia dello scudo» scriveva Pausania; e Filostrato diceva che gli haltres «sono guida sicura delle mani e facilitano il balzo a terra». Il più antico di questi halteres, almeno come reperto archeologico, proviene da Eleusi ed è datato intorno al VII se colo. È un pezzo di piombo di due chili con una incisione per il vincitore di una gara, Epeneto. Col trascorrere degli anni, gli halteres, almeno stando all'archeologia, si facevano più léggeri: non superavano il chilo quelli del VI secolo, più grossi nella parte anteriore e più sottili in quella posteriore. Si arrotondavano nel V secolo e non ne sono stati trovati di date posteriori (cilindrico a Rodi, secondo una forma che sarà utilizzata anche dai saltatori romani).Una breve rincorsa, partendo con le braccia ben aderenti al corpo, e poi lo stacco da una linea, detta bater, posta su di una piccola pedana rialzata; durante la traiettoria le braccia vengono proiettate in avanti, il più possibile parallele; un attimo prima della ricaduta, le braccia vengono portate all'indietro; la chiusura avviene a piedi nudi nella skamma, dove la sabbia era assai livellata per rendere più visibili le impronte dei saltatori. Questa è la tecnica che si deduce specialmente dalle pitture vascolari: la buca veniva scavata 'con dei picconi, il cui utilizzo veniva consigliato a pugili e lottatori. Il salto veniva misurato partendo dalla pedana di battuta fino al punto di caduta dell'atleta più vicino allo stacco. Si provvedeva alla misurazione con un'asticella, il kanon. Quanto saltavano gli atleti greci? L'unica cosa certa è che la skamna era lunga 50 piedi; il saltatore Faillo, di Crotone, una volta si ruppe una gamba cadendo cinque piedi oltre la buca. Saltò quindi 55: più di 16 metri. Di qui la tesi che il salto in lungo fosse un salto multiplo: il triplo è del resto una specialità ancora molto popolare nella Grecia settentrionale. Salto multiplo? Con gli halteres d'impaccio tra le mani? Con questa considerazione c'è chi respinge la teoria, e magari tutto quel numero di piedi ha subito qualche errore di trascrizione nel tempo. Un salto di Chionide, spartano che avrebbe superato di due piedi la skamma, quindi 52 piedi, quasi 16 metri, in altre fonti viene riportato come un salto di 22 piedi, e quindi di quasi sette metri: accettabile secondo le prestazioni moderne, ma già a quei tempi?.. Oltre la misura, comunque, per il risultato era determinante lo stile: una caduta scoordinata e con labile traccia sulla sabbia veniva considerata la prova di un salto nullo. Ogni saltatore aveva a disposizione tre tentativi.Un attrezzo di metallo o di pietra di forma lenticolare, quindi rotondo, più spesso al centro che ai bordi, molto pe sante, levigato in superficie quindi molto difficile da afferrarsi: questo era il disco da lanciare secondo Luciano, il solos, come veniva chiamato secondo l'antica dizione omerica (solos, dal semitico seta, roccia) il pezzo di ferro lanciato in onore di Patroclo. Luciano vide a Olimpia tre esemplari di disco: uno di questi era attraversato da un buco all'interno del quale si faceva passare una cinghia. L'atleta, posto su di una pedana rialzata, situata nello stadio, tiene il disco con la mano e con l'aiuto della cinghia; lo muove con movimento circolare e lo lancia con tutte le sue forze. Il disco vola nell'aria, cade, rotola sul terreno. Si segna il punto in cui s'arresta: è a sorpassare quel punto che tendono gli sforzi degli altri atleti. La descrizione del lancio è pure di Luciano, il quale considerava come punto per calcolare la misura non il punto di caduta ma il più probabilmente lontano punto d'arresto. Un sasso rotondo lanciato con l'aiuto di una cordicella: sembra l'antenato dell'italianissima ruzzola più che del lancio del disco.Filostrato, invece, lo racconta così: l'atleta, dopo aver cosparso l'attrezzo con sabbia per aumentarne la presa, si portava su di una pedana, piccola e sufficiente solo per un uomo, delimitata davanti e ai lati, ma aperta posteriormente, cosicché il lanciato re aveva la possibilità di prendere l'avvio per darsi lo slancio. II lanciatore sollevava il disco all'altezza del capo con entrambe le braccia, tenendolo aderente all'avambraccio destro con i polpastre11i della mano destra; quindi spingeva il braccio destro all'indietro e in basso, mentre la testa e il corpo seguivano il movimento girando nella stessa direzione; tutto il peso del corpo poggiava sul piede destro. Come si vede, i mancini non avevano scampo. Il numero dei lanci era di cinque. La base di partenza era la linea frontale della balbis, i «blocchi» dei corridori dello stadion; il punto di caduta (o di arresto, secondo le diverse scuole di pensiero) era segnato con un piolo. Era prefissata e confinata una zona di caduta: se il disco andava oltre i limiti laterali il lancio era nullo.Quanto erano lunghi i lanci? Faillo, una volta, avrebbe raggiunto i 95 piedi, e Flegia avrebbe scavalcato il fiume Alfeo nel suo punto di maggior larghezza: 190 piedi, sessanta metri più o meno.

domenica 9 dicembre 2007

Antonio Franchini - acqua,sudore,ghiaccio


Fra i tre racconti che compongono il libro, il primo mi sembra il migliore. A differenza degli altri due, Francesco Esente vi prende la parola in prima persona.
Prima canoista poi pugile e, nell'ultimo racconto, sciatore, facendo onore al suo cognome, si sceglie posizioni secondarie ed equidistanti dai veri protagonisti dei suoi tre racconti.
E’ proprio grazie a questo tipo di posizione da osservatore che Francesco (da considerarsi a tutti gli effetti alter ego di Franchini) non perde nessun dettaglio che potrà tornargli utile nell'arte di rendere i fatti in forma narrativa.
Perché ho scelto un libro a racconti?
Semplice: mi piace come scrive Franchini, mi è piaciuta l’idea di toccare e unire con un libro tre discipline così differenti.

E’ bello! Punto e basta.

In tutti e tre i racconti, ho travato leggermente ostico prendere il “ritmo di lettura” giusto, ma una volta trovato……le ore passano veloci e piacevoli come le rapide di un torrente, protagoniste del primo racconto.

Visto e considerato che lo sforzo di leggere troppo può causare seri danni al sistema nervoso centrale, allego alla recensione solo le prime pagine del primo racconto.
Anche se poche righe, chi leggerà riuscirà a farsi una chiara e vivida idea dello sfondo su cui si svolgerà la storia, fatto di fiumi selvaggi e discese mozzafiato in canoa.

Per ovvie ragioni ometto gli altri due racconti (a mio dire comunque molto belli), ma nell’ipotesi vi potessero interessare, sarò ben lieto di parlarvene e presentarveli.

………………
Forse quest'anno non ho coraggio.
C'è ancora una rapida, detta «del Camaleonte», che una volta era impegnativa, ma il fiume cambia, in meglio o in peggio, come nell'uomo una passione si estingue e un' altra ne monta, così adesso sul Camaleonte l'acqua non si biforca più in due lingue, una ingannevole, che andava a spegnersi in mezzo ai sassi, e l'altra giusta ma implacabile, perché sbatteva in controroccia, e allora era da prendere lungo il filone centrale della corrente con assoluta esattezza, o la canoa si sarebbe incastrata sotto la nicchia dell' argine, assicurando un bagno nell' acqua gelata.In questo punto, l'ultima piena ha spianato il letto del fiume. Adesso il Camaleonte è una semplice curva, con un salto.Se non te ne accorgi in tempo, e se l'acqua è tanta, alla peggio hai un sobbalzo, un istante in cui ti manca il respiro e tutta la schiuma ti ribolle intorno, ma è solo un attimo e già ne sei fuori.Puoi passare dove preferisci, a destra, al centro, a sinistra, al massimo raschi il fondo dell'imbarcazione sulle pietre, ma la pancia della canoa t fatta per coprirsi di cicatrici.Invece, più a valle, la rapida detta «la Sfinge», una volta era facile e adesso fa paura, ci si rovesciano anche i gommoni .«Anche i raft danno il giro» dicono in gergo.L'anno scorso se ne sono capovolti dieci in un giorno. Fu il pomeriggio che successe anche a noi.La fine di maggio e pioveva da tre giorni; l'acqua del laghetto era verde cupo e andava a lambire assai in alto le rocce lisce di muschio, ma io allora avevo scarso occhio per i livelli del fiume, e non seppi valutare quel che avremmo trovato più a valle.Anche la Sfinge è una rapida in curva, ma l'onda che vi cade dall' alto è diventata pesante come uno schiaffo, perché qui l'ultima piena ha scavato, ha generato un buco. E non è ancora niente, perché la rapida vera comincia solo più avanti, con un cieco galoppo di cavalloni lungo una cinquantina di metri, che rovescia una spessa lingua d'acqua in mezzo a due massi. Il loro profilo a qualcuno ha ricordato la pietra che formulava enigmi, ma i lineamenti della roccia, come il disegno delle costellazioni, si sa bene quanto siano accomodanti nell'eternare l'abbaglio del primo che li battezza.Il moto convulso delle onde e il perenne velo di vapore sollevato dalle gocce infrante confondono la percezione delle distanze: i due scogli non stanno a guardia di un'impervia strettoia, come sembrerebbe. Tra quelle rocce c'è infatti spazio sufficiente a farci passare più di un gommone, ma quando il timoniere del raft urla ai rematori, avanti, avanti, destri e sinistri avanti! in mezzo al fragore della rapida, essi ricavano l'insopportabile impressione di andare a schiantarsi sulle pietre e l'istinto li fa ritrarre, estraggono la pagaia, s'accucciano sul fon- do dell'imbarcazione, mentre il raft miracolosamente passa indenne, plana sulla cresta bianca, scivola sui massi affioranti e ne asseconda le gobbe grazie all' aderenza sinuosa del fondo molle di caucciù, sgroppa sulla carovana d'onde del tratto ormai sgombro da ostacoli e a queI punto il timoniere caccia un urlo, tutti i rematori si riassettano, riprendono con fierezza il posto di voga sul bordo, alzano le pagaie, le picchiano di piatto sul- l'acqua, all'unisono, e rispondono all'urlo.Ma prima bisogna arrivarci, sulla rapida, basterebbe questo, arrivarci, anche girati: tra i due massi a volte si passa anche di poppa - la corrente che ti travolge è la stessa che ti fa sorvolare gli ostacoli - e noi invece ci capovolgemmo subito, ancora nella curva.Quando mi trovai in acqua, sotto il velo tremulo che diventa la pancia di un raft riverso, la gamba ancora prigioniera in una delle chiusure puntapiedi per non essere sbalzato fuori a ogni scossa, provai la sensazione che certo per tutti è la prima, davanti alla disgrazia, l'incredulità. Non avevo mai pensato seriamente che un gommone si potesse capovolgere su queI fiume che conoscevo benissimo, per quanto sapessi che qualche volta era successo. Non a me. Poi ancora pensai quello che pensano tutti - che fine cretina -, mentre il piede si sfilava dalla trappola senza che la mia mente partecipasse del gesto, e io uscivo da sotto al raft, abbandonavo al suo destino la pagaia che per nessuna ragione, come gli istruttori raccomandano prima di ogni discesa, avrei dovuto mollare, sentivo la corrente che mi afferrava e da allora le azioni non mi appartennero più. Forse i piedi li avevo pure messi bene in avanti, l'altra manovra di sicurezza obbligatoria, per ammortizzare l'impatto con le rocce, ma ogni percezione era offuscata dal morso di gelo che mi mozzò il respiro, mentre l'onda mi scagliava in alto per un istante e poi di colpo m'inabissava. Quando emergevo spalancavo la bocca, inghiottivo aria con uno spasmo, subito tornavo sotto, vedevo gli scogli venirmi incontro e non capii mai in che modo a un certo Punto li avessi oltrepassati.Ripresi coscienza dei miei gesti quando ricominciai a sentire il corpo e puntando i piedi in direzione della riva sassosa cercavo un approdo.Uscì un raggio di sole e mi accorsi che il greto - me lo ricordavo larghissimo in quel punto, un'abbacinante bianca sassaia su cui d'estate si potevano sentire le canoe trascinate con secca, polverosa eco, prima d'attingere la vena che ancora fresca vi fluiva in fondo - adesso era tutto sommerso. Sporgevano dall' acqua solo le pietre più grosse, la grande portata di primavera traboccava dappertutto: aveva steso come un velo, uno specchio di trasparenza inerte attorno ai massi e veloce sopra le pietre piatte, diramato in decine di rivoli, tanti piccoli torrenti che nei tratti più incassati del greto erano pro- fondi da spingere l'acqua fino alle cosce e formare una corrente ancora temibile. Avevo paura che a inciampare mi avrebbe trascinato un'altra volta nel fiume.Barcollavo su per la sponda, ogni tanto mettevo il piede in fallo, mi scoraggiavo, imprecavo come quando ci si sente presi di mira da qualche ostinato accanimento della sfortuna, e fu allora che vidi venirmi incontro, uno a uno, gli altri membri dell' equipaggio, frastornati come me, con l'espressione smarrita dei naufraghi che tuttavia, scampato il pericolo, presentono quanto possa essere esaltante trovarsi in mezzo al fluire delle acque di piogge e di ghiacciai, nel fragore della primavera, in quella nuova ebbrezza conquistata da colui che, meno danni ha riportato, più voglia gli verrà di farsene gloria. La gente che va in canoa ama raccontare storie di morti sui fiumi, ama celebrare le rapide dopo che le ha superate, e come si è comportato l'uno e come l'altro dei compagni di discesa, e come uno si è rovesciato e come l'altro ha corso lo stesso rischio però l'ha scampata. E su come ogni rapida vada presa, da che lato, con che stile, secondo quale traiettoria, è capace di parlare per ore, soprattutto a tavola, mangiando. In realtà è assai difficile trovare la morte in canoa, sui tratti che si fanno, a meno di non andarsela a cercare sui tratti che non si fanno, ma coloro che davvero ci provano sono anche quelli che parlano meno.La gente che va in canoa non è più monotona di altri che fanno altre cose. Forse capisce che condividere un' alea remota di morte ti lega più vistosamente che non spartirsi l'uniformità della vita.Forse quest' anno non ho coraggio.Dopo il Camaleonte, non c'è niente d'impegnativoalmeno per un chilometro: riccioli d'onde, raschiere, piccoli massi isolati, in un fluire d'acqua liscio e compatto, ma tutti noi adesso pagaiamo con il fiato sospeso e un senso di vuoto allo stomaco, deconcentrati, distratti. Succede che non ci accorgiamo della fronte emersa di un sasso, e lo squilibrio della canoa ci riporta alla realtà, finché il paesaggio si allarga, o forse è solo un'impressione, ma ci sembra che le quinte del fiume si aprano sull'ingresso di una primadonna, e allora sentiamo il muggito di Estasi, accostiamo alla riva destra, col cuore in gola, tiriamo in secca le canoe e, saltellando sulle rocce con le gambe malferme per l'emozione, andiamo a vedere.Perfino i timonieri dei raft accostano, atteggiano la voce a una serietà un po' di circostanza, per evidenziare come il momento sia grave, e dicono ragazzi, adesso c'è Estasi, mi raccomando, ora quando vi dico di pagaiare fatelo con tutta la forza che avete, perché stavolta dobbiamo entrare bene, belli dritti...Quando c'è piena, allora i timonieri si raccomandano,soprattutto con i primi due di prua, i più esposti: a un certo punto vi troverete di fronte un muro d'acqua, non vi spaventate, urlate, piantateci dentro la pagaia, tanto, dopo non capirete più niente, non dovete fare più niente, non preoccupatevi, niente può succedere...