domenica 9 dicembre 2007

Antonio Franchini - acqua,sudore,ghiaccio


Fra i tre racconti che compongono il libro, il primo mi sembra il migliore. A differenza degli altri due, Francesco Esente vi prende la parola in prima persona.
Prima canoista poi pugile e, nell'ultimo racconto, sciatore, facendo onore al suo cognome, si sceglie posizioni secondarie ed equidistanti dai veri protagonisti dei suoi tre racconti.
E’ proprio grazie a questo tipo di posizione da osservatore che Francesco (da considerarsi a tutti gli effetti alter ego di Franchini) non perde nessun dettaglio che potrà tornargli utile nell'arte di rendere i fatti in forma narrativa.
Perché ho scelto un libro a racconti?
Semplice: mi piace come scrive Franchini, mi è piaciuta l’idea di toccare e unire con un libro tre discipline così differenti.

E’ bello! Punto e basta.

In tutti e tre i racconti, ho travato leggermente ostico prendere il “ritmo di lettura” giusto, ma una volta trovato……le ore passano veloci e piacevoli come le rapide di un torrente, protagoniste del primo racconto.

Visto e considerato che lo sforzo di leggere troppo può causare seri danni al sistema nervoso centrale, allego alla recensione solo le prime pagine del primo racconto.
Anche se poche righe, chi leggerà riuscirà a farsi una chiara e vivida idea dello sfondo su cui si svolgerà la storia, fatto di fiumi selvaggi e discese mozzafiato in canoa.

Per ovvie ragioni ometto gli altri due racconti (a mio dire comunque molto belli), ma nell’ipotesi vi potessero interessare, sarò ben lieto di parlarvene e presentarveli.

………………
Forse quest'anno non ho coraggio.
C'è ancora una rapida, detta «del Camaleonte», che una volta era impegnativa, ma il fiume cambia, in meglio o in peggio, come nell'uomo una passione si estingue e un' altra ne monta, così adesso sul Camaleonte l'acqua non si biforca più in due lingue, una ingannevole, che andava a spegnersi in mezzo ai sassi, e l'altra giusta ma implacabile, perché sbatteva in controroccia, e allora era da prendere lungo il filone centrale della corrente con assoluta esattezza, o la canoa si sarebbe incastrata sotto la nicchia dell' argine, assicurando un bagno nell' acqua gelata.In questo punto, l'ultima piena ha spianato il letto del fiume. Adesso il Camaleonte è una semplice curva, con un salto.Se non te ne accorgi in tempo, e se l'acqua è tanta, alla peggio hai un sobbalzo, un istante in cui ti manca il respiro e tutta la schiuma ti ribolle intorno, ma è solo un attimo e già ne sei fuori.Puoi passare dove preferisci, a destra, al centro, a sinistra, al massimo raschi il fondo dell'imbarcazione sulle pietre, ma la pancia della canoa t fatta per coprirsi di cicatrici.Invece, più a valle, la rapida detta «la Sfinge», una volta era facile e adesso fa paura, ci si rovesciano anche i gommoni .«Anche i raft danno il giro» dicono in gergo.L'anno scorso se ne sono capovolti dieci in un giorno. Fu il pomeriggio che successe anche a noi.La fine di maggio e pioveva da tre giorni; l'acqua del laghetto era verde cupo e andava a lambire assai in alto le rocce lisce di muschio, ma io allora avevo scarso occhio per i livelli del fiume, e non seppi valutare quel che avremmo trovato più a valle.Anche la Sfinge è una rapida in curva, ma l'onda che vi cade dall' alto è diventata pesante come uno schiaffo, perché qui l'ultima piena ha scavato, ha generato un buco. E non è ancora niente, perché la rapida vera comincia solo più avanti, con un cieco galoppo di cavalloni lungo una cinquantina di metri, che rovescia una spessa lingua d'acqua in mezzo a due massi. Il loro profilo a qualcuno ha ricordato la pietra che formulava enigmi, ma i lineamenti della roccia, come il disegno delle costellazioni, si sa bene quanto siano accomodanti nell'eternare l'abbaglio del primo che li battezza.Il moto convulso delle onde e il perenne velo di vapore sollevato dalle gocce infrante confondono la percezione delle distanze: i due scogli non stanno a guardia di un'impervia strettoia, come sembrerebbe. Tra quelle rocce c'è infatti spazio sufficiente a farci passare più di un gommone, ma quando il timoniere del raft urla ai rematori, avanti, avanti, destri e sinistri avanti! in mezzo al fragore della rapida, essi ricavano l'insopportabile impressione di andare a schiantarsi sulle pietre e l'istinto li fa ritrarre, estraggono la pagaia, s'accucciano sul fon- do dell'imbarcazione, mentre il raft miracolosamente passa indenne, plana sulla cresta bianca, scivola sui massi affioranti e ne asseconda le gobbe grazie all' aderenza sinuosa del fondo molle di caucciù, sgroppa sulla carovana d'onde del tratto ormai sgombro da ostacoli e a queI punto il timoniere caccia un urlo, tutti i rematori si riassettano, riprendono con fierezza il posto di voga sul bordo, alzano le pagaie, le picchiano di piatto sul- l'acqua, all'unisono, e rispondono all'urlo.Ma prima bisogna arrivarci, sulla rapida, basterebbe questo, arrivarci, anche girati: tra i due massi a volte si passa anche di poppa - la corrente che ti travolge è la stessa che ti fa sorvolare gli ostacoli - e noi invece ci capovolgemmo subito, ancora nella curva.Quando mi trovai in acqua, sotto il velo tremulo che diventa la pancia di un raft riverso, la gamba ancora prigioniera in una delle chiusure puntapiedi per non essere sbalzato fuori a ogni scossa, provai la sensazione che certo per tutti è la prima, davanti alla disgrazia, l'incredulità. Non avevo mai pensato seriamente che un gommone si potesse capovolgere su queI fiume che conoscevo benissimo, per quanto sapessi che qualche volta era successo. Non a me. Poi ancora pensai quello che pensano tutti - che fine cretina -, mentre il piede si sfilava dalla trappola senza che la mia mente partecipasse del gesto, e io uscivo da sotto al raft, abbandonavo al suo destino la pagaia che per nessuna ragione, come gli istruttori raccomandano prima di ogni discesa, avrei dovuto mollare, sentivo la corrente che mi afferrava e da allora le azioni non mi appartennero più. Forse i piedi li avevo pure messi bene in avanti, l'altra manovra di sicurezza obbligatoria, per ammortizzare l'impatto con le rocce, ma ogni percezione era offuscata dal morso di gelo che mi mozzò il respiro, mentre l'onda mi scagliava in alto per un istante e poi di colpo m'inabissava. Quando emergevo spalancavo la bocca, inghiottivo aria con uno spasmo, subito tornavo sotto, vedevo gli scogli venirmi incontro e non capii mai in che modo a un certo Punto li avessi oltrepassati.Ripresi coscienza dei miei gesti quando ricominciai a sentire il corpo e puntando i piedi in direzione della riva sassosa cercavo un approdo.Uscì un raggio di sole e mi accorsi che il greto - me lo ricordavo larghissimo in quel punto, un'abbacinante bianca sassaia su cui d'estate si potevano sentire le canoe trascinate con secca, polverosa eco, prima d'attingere la vena che ancora fresca vi fluiva in fondo - adesso era tutto sommerso. Sporgevano dall' acqua solo le pietre più grosse, la grande portata di primavera traboccava dappertutto: aveva steso come un velo, uno specchio di trasparenza inerte attorno ai massi e veloce sopra le pietre piatte, diramato in decine di rivoli, tanti piccoli torrenti che nei tratti più incassati del greto erano pro- fondi da spingere l'acqua fino alle cosce e formare una corrente ancora temibile. Avevo paura che a inciampare mi avrebbe trascinato un'altra volta nel fiume.Barcollavo su per la sponda, ogni tanto mettevo il piede in fallo, mi scoraggiavo, imprecavo come quando ci si sente presi di mira da qualche ostinato accanimento della sfortuna, e fu allora che vidi venirmi incontro, uno a uno, gli altri membri dell' equipaggio, frastornati come me, con l'espressione smarrita dei naufraghi che tuttavia, scampato il pericolo, presentono quanto possa essere esaltante trovarsi in mezzo al fluire delle acque di piogge e di ghiacciai, nel fragore della primavera, in quella nuova ebbrezza conquistata da colui che, meno danni ha riportato, più voglia gli verrà di farsene gloria. La gente che va in canoa ama raccontare storie di morti sui fiumi, ama celebrare le rapide dopo che le ha superate, e come si è comportato l'uno e come l'altro dei compagni di discesa, e come uno si è rovesciato e come l'altro ha corso lo stesso rischio però l'ha scampata. E su come ogni rapida vada presa, da che lato, con che stile, secondo quale traiettoria, è capace di parlare per ore, soprattutto a tavola, mangiando. In realtà è assai difficile trovare la morte in canoa, sui tratti che si fanno, a meno di non andarsela a cercare sui tratti che non si fanno, ma coloro che davvero ci provano sono anche quelli che parlano meno.La gente che va in canoa non è più monotona di altri che fanno altre cose. Forse capisce che condividere un' alea remota di morte ti lega più vistosamente che non spartirsi l'uniformità della vita.Forse quest' anno non ho coraggio.Dopo il Camaleonte, non c'è niente d'impegnativoalmeno per un chilometro: riccioli d'onde, raschiere, piccoli massi isolati, in un fluire d'acqua liscio e compatto, ma tutti noi adesso pagaiamo con il fiato sospeso e un senso di vuoto allo stomaco, deconcentrati, distratti. Succede che non ci accorgiamo della fronte emersa di un sasso, e lo squilibrio della canoa ci riporta alla realtà, finché il paesaggio si allarga, o forse è solo un'impressione, ma ci sembra che le quinte del fiume si aprano sull'ingresso di una primadonna, e allora sentiamo il muggito di Estasi, accostiamo alla riva destra, col cuore in gola, tiriamo in secca le canoe e, saltellando sulle rocce con le gambe malferme per l'emozione, andiamo a vedere.Perfino i timonieri dei raft accostano, atteggiano la voce a una serietà un po' di circostanza, per evidenziare come il momento sia grave, e dicono ragazzi, adesso c'è Estasi, mi raccomando, ora quando vi dico di pagaiare fatelo con tutta la forza che avete, perché stavolta dobbiamo entrare bene, belli dritti...Quando c'è piena, allora i timonieri si raccomandano,soprattutto con i primi due di prua, i più esposti: a un certo punto vi troverete di fronte un muro d'acqua, non vi spaventate, urlate, piantateci dentro la pagaia, tanto, dopo non capirete più niente, non dovete fare più niente, non preoccupatevi, niente può succedere...

sabato 3 novembre 2007

GLADIA---TORI



ODIO LA GUERRA
DETESTO GLI ESERCITI
AMO COMBATTERE

Questa è la frase (non della omnitel) con cui il libro si presenta a noi.
Fico ho subito pensato,frase romantica ma di sicuro effetto. Forse vale la pena leggerlo…e avevo ragione.




Penso che il significato della parola COMBATTERE, possa essere visto sotto punti di vista differenti e conseguentemente esteso anche ad ambiti sportivi più ampi e non meramente pugilistici.
Non credo quindi di fare un errore nell'utilizzarlo per noi "atleti leggeri",dal più pippa al più forte.
Combattiamo contro nemici invisibili , impalpabili, inanimati.
Quanta fatica si fa per migliorare la propria prestazione di qualche centimetro o qualche decimo di secondo?
Quanto avete odiato quella maledetta asticella che solamente a guardarla storto si lascia cadere in un tuffo suicida da quei due maledetti ritti?

Il gusto per la sfida ci accomuna tutti( di qualunque sport si tratti).
La sfida di riuscire a fare cose sempre più complesse, la sfida di riuscire a prevaricare un avversario, la sfida di riuscire continuamente a migliorarsi.

Combattiamo tutti, e lo facciamo ogni volta che ci alleniamo.
Combattiamo contro i nostri limiti.

Visto che è iniziata da relativamente poco la preparazione invernale, spero che questo libro vi carichi, vi aiuti a trovare voglia ed energie per continuare ad allenarvi.

Non doveva essere questo il libro…ma va bene cosi!

……………quando il gioco si fa duro, i gladiatori cominciano a giocare.
La gladiatura antica prevedeva duelli di natura e di intensità molto diversa, dagli scontri all'ultimo sangue a quelli meno cruenti, simulati e addirittura grotteschi. Oggi i tornei dei vari sport di combattimento, dal pugilato alla boxe thailandese, attirano folle di appassionati, mentre un pubblico ancora più vasto di adulti e di bambini impazzisce per lo spettacolo infinito del wrestling.
In queste pagine sfilano le glorie, le sconfitte, le sofferenze, le gesta dei gladiatori contemporanei.
Pugili, lottatori, wrestler, combattenti per sport, per vocazione, per destino, le raccontano, spesso in prima persona. Sono giovani nel pieno delle forze e vecchi che ricordano, gente che ha smesso o che continua, campioni o comparse di un mondo la cui durezza non riesce mai a cancellare del tutto l'ingenuità di un sogno e l'illusione sul proprio destino. Franchini scrivendo restituisce le ragioni e i deliri, le timidezze e l'oltranza di questi uomini, e lo squallore e il fascino dei loro luoghi: quartieri di periferia, palestre, ambienti apparentemente chiusi eppure sempre spalancati sulla mistica della sofferenza, il miraggio della gloria, il bisogno di appartenere a un mondo dalle regole implacabili ma certe.

Totalmente da gustare, la galleria fotografica presente a metà libro.
Gli scatti sono di Pompili (ha fatto diversi servizi per sport week partecipando alla mostra “palestre”)

Leggiamo un po’:

Non è facile raccattare in giro per l'Europa otto uomini di più di cento chili capaci di stare su un ring. Non è facile trovare uomini alti quasi due metri che abbiano voglia di combattere e sappiano muoversi con la grazia che rende accettabile un massacro. Disposti sì, se ne trovano quanti se ne vuole, con tutte queste guerre che fanno profughi, regimi che fanno esuli, carestie che fanno disperati.Quelli che naturalmente peserebbero ottantacinque, novanta chili, si devono bombare.Si riconoscono subito, sono i più plastici, i più belli, all' apparenza, e spesso i più fragili, perché la loro stazza è chimica, illusoria rispetto a coloro che hanno addosso un quintale e più di carne maldisposta, ma autentica e cattiva.Provengono dall'Ungheria e dalla ex Cecoslovacchia, dalle repubbliche dell' ex Unione Sovietica e dell' ex Jugoslavia, viene di solito dall'Est la carne che s'immola per il nostro piacere sui marciapiedi e sul ring. Carne più bianca e più solida della nostra, più avvezza al patimento, ben pestata dal maglio di mafie più giovani e crudeli.
Anche dalle regioni dell'Africa interiore sono originarie genti nere di grande forza e magnifica proporzione di membra e forniscono anch'esse, in eguale misura, femmine alla prostituzione e maschi alla lotta.Perfino lo spettatore attento non sempre vede il colpo definitivo, quello che abbatte l'uomo. Ti sei distratto un attimo e uno dei due già sta per terra e se a casa il televisore ti rimanda il ralenti da tutti i lati, fino alla noia, a bordo ring invano ti guarderai interrogativo intorno: il clamore della folla non restituisce il gesto, il momento che tu ti sei perso. Come l'ha perso, con maggior danno, colui che adesso brancola al suolo.lo però l'ho vista, e l'ho sentita, forse ancora più sentita che vista, al "Kl Oktagon Grand Prix" di Milano, la ginocchiata con cui Evgeni Orlov, il russo, abbatté l'ungherese Varga, lo schiocco duro dell'impatto della rotula nella carne. Fu l'epilogo di un match doloroso e mediocre come mille altri, destinato a non restare nella memoria collettiva ma solo nel ricordo di qualche spettatore occasionale intenzionato a non ripetere mai più l'esperienza.n ralenti fa sembrare tutti i colpi innocui, simili a carezze. Ti domandi come possa quel braccio che è scivolato su una spalla sfiorando la guancia aver fatto piegare le gambe a un colosso, arrivi a pensare che sia tutta una farsa.Dal vivo, invece, ciò che impressiona è come la brevità del gesto risolutore contrasti con la duratura scossa del danno e come il ko possa modificare tutto, non solo l'equilibrio dello sconfitto, ma per intero lo stato delle cose intorno.Mentre il suo avversario strisciava sui gomiti in un modo che, anche qualora fosse riuscito a tirarsi su, era chiaro per tutti che il combattimento non poteva continuare, Evgeni Orlov aveva girato sulla folla uno sguardo di vuota soddisfazione.Fino a quel punto il pubblico li aveva fischiati, lui e il suo avversario. Aveva fischiato il loro troppo frequente avvinghiarsi, l'indugiare alle corde in un abbraccio doloroso per il collo e le orecchie, ma poco entusiasmante per uno spettatore, i cazzotti che somigliavano a spinte, i calci rari e pesanti. Lo scontro tra gli uomini grandi raramente è bello, è solo l'incombere della rovina su uno dei due a tenere gli spettatori col fiato sospeso. Perché non è come quando va al tappeto un atleta di taglia agile, che può rialzarsi di scatto o schizzare dalle corde come una scheggia. Quando un peso massimo cade è il titano cacciato dal cielo, è l'orgoglio dell'uomo atterrato da- gli dèi, il fracasso di un mondo che crolla.Fin dall'inizio il pubblico aveva fischiato, aveva deriso le spalle cascanti di Orlov, il suo ventre gonfio così diverso dai tronchi flessuosi e scolpiti dei pesi leggeri, i suoi arti lunghissimi da supermassimo acromegalico.La ginocchiata aveva messo a tacere il mormorio e spenta la serpeggiante distrazione in un silenzio teso. n russo ora camminava in cerchio sul ring e il suo in- cedere, lo sfregare del tessuto del pantaloncino contro la pelle delle cosce quel suono altrimenti innocuo, capace al massimo di suggerire la fretta amplificato dalla calma improvvisa scesa sul palazzetto, sembrava minaccioso e innaturale. Forse per- ché era il suono della rivalsa e noi non siamo abituati a pensare che la rivalsa abbia una voce.Camminava in cerchio come se i suoi arti avessero bisogno di una lunga inerzia per arrestarsi e perfino il sentimento della soddisfazione faticava a risalire sulla faccia inespressiva.Poi, prima che dalla folla si levasse l'acclamazione riparatrice, una voce assai distingui bile gridò un concetto poco adatto a essere urlato, ma quel silenzio lo consentiva: «Si si, fatevi il fisico, andate in palestra, stronzi! Guardate questo...».Guardate questo, che con un fisico di merda ha buttato giù uno grande quanto lui. Guardate la rivincita della bruttezza e della goffaggine. Andate in palestra, voi che ci andate solo per contemplarvi dentro agli specchi, voi adepti del culto dell' apparenza di questi anni fatui, di questa bellezza che non serve a un cazzo.Sembrò che il russo potesse capire il messaggio di quella voce gracchiante, alzatasi a rivendicare i diritti degli sgraziati, tanto che diede l'impressione di approvare mentre continuava a girare in tondo sul ring, a passi veloci senza motivo, come la bestia rinchiusa che non trova l'uscita.
Il Kl è un torneo a eliminazione diretta tra otto atleti che devono pesare più di cento chili. È nato in Giappone, dove la piccolezza degli uomini ha fatto nasce- re il culto dei giganti, e da n si è diffuso in Europa, ma il Kl più importante resta quello di Tokyo, dove al vincitore è destinato un assegno di quattrocentomila dollari e i partecipanti arrivano sul ring calando da gru dorate o incedendo su passerelle bordate di torce e stagliandosi al diradarsi di nubi di vapore artificiale contro fondali da cui emergono finte colonne, fronti di templi, nicchie abitate da statue di plastica, tutti i rottami di un mondo classico che dal giorno in cui si è estinto continua a essere lo sfondo preferito di tutte le decadenze.È al ring del Tokyo Dome che i combattenti acce- dono danzando al ritmo dei tamburi se sono negri, di cornamuse e trombe se vengono dalle regioni dei celti, ricoperti da manti di pelli di lupo se sono scandinavi.Soltanto lì, al Tokyo Dome, si possono vedere monumentali Boeri, avvolti in tappeti di zebra, con i capelli e il pizzetto ossigenati per meglio contrapporre il pallore feroce della loro pelle all' ebano dei neri che invece, per fare spettacolo, indossano i gonnellini che portavano gli indigeni nei vecchi film di Tarzan, o calzoni sfrangiati luccicanti di lustrini e maschere tribali intagliate.Le fattezze dei lottatori famosi si ritrovano nei pupazzi, nei personaggi dei fumetti e nei videogiochi prodotti da una civiltà che ama moltiplicare gli eroi nella plastica, nella carta e negli infiniti virtuali.K sta per kickboxing e significa che gli atleti usano i pugni e i calci avendo come bersaglio tutto il corpo dell' avversario, ma sapere le regole non è importante, la memoria delle regole è fatta per perdersi nel tempo e suscitare inessenziali congetture. Non c'è forse grande confusione tra gli archeologi sulle differenze d'armamento tra i Thraeces e gli hoplomachi che com- battevano negli anfiteatri? Per noi è diventato impossibile distinguere i provocatores dai secutores. Le fonti non ci dicono nulla, oltre al nome, degli scissores.Sappiamo identificare subito il reziario, quello sì, per il suo assurdo corredo di rete da pescatore e di tridente, e perché per il resto era quasi nudo, né corazza né elmo, e rappresentava l'incarnazione stessa della subdola scioltezza, con quell' inganno della rete a scivolare nella polvere dell' arena. Ma già il nome del mirmillone, il suo avversario più tradizionale, lo conoscono solo quelli che si sono interessati specificamente alla gladiatura. Appariva tutto corazzato, certo, ma il simbolo che lo caratterizzava era assai meno vistoso: il pesce che gli stava scolpito sull' elmo, destinato a squarciare la rete del nemico o a cadere fra le sue maglie.Possiamo vedere in quel classico scontro l'opposizione tra l'agilità di colui che, libero, non costretto da nessun legame di ferro, è tuttavia in grado di colpire con la naturalezza di un' onda quando schiaffeggia, e l'impenetrabilità un po' ottusa di chi avanza ricoperto dal metallo.La catena delle libere associazioni si mette in moto velocemente, e davanti agli occhi ci passa un'immagine familiare: lo sfrontato attacco di tutti i ragazzi simbolo della libertà che scattano a infilare la mina sotto i cingoli del carrarmato dell'assolutismo, l'inconciliabile diversità tra l'agile istinto, la grazia naturale e la cupa determinazione, tra la fluida anarchia che s'immola a sprezzo della morte e la vulnerabile cu- pezza della repressione che avanza a sprezzo della vita.Ho sempre ammirato il reziario e temuto di assomigliare assai più al mirmillone.Sulle gradinate si svolgeva un altro spettacolo, in mezzo a un pubblico diviso tra parmularii, che parteggiavano per i traci, armati di parma, lo scudo piccolo, e scutarii, fan di secutori e rnirrnilloni dal grande scu- do oblungo, lo scutum; e quell'antica folla estinta, quell'infinito sciame d'ombre forse era simile a que- sta gente che si sbraccia dagli spalti dello stadio che ospita il Kl italiano.Appoggiata in mezzo agli svincoli del suburbio come un cargo spaziale in secca, è una struttura che molte volte ha cambiato il nome nel corso degli anni, specchio del succedersi delle epoche, delle mode e degli uomini, dello splendore e miseria degli sponsor: Palatrussardi, Palavobis, PalaTucker, fino al Mazda Palace di adesso, con questo suono arcaizzante che fa pensare a divinità asiatiche, a religioni estinte.Le ragazze che portano calzature dai lacci intrecciati attorno al polpaccio, top istoriati e perle all'ombelico, e i ragazzi i cui tatuaggi imitano le sagome stilizzate di animali totemici, le spirali astratte dei maori, le belve fantastiche della Cina o gli ideogrammi giapponesi cui una replica imperfetta ha cancellato l'alone del senso per la gratuità del fregio devono il loro aspetto alla moda di popoli lontani nello spazio e nel tempo.Quest' epoca sembra per tanti aspetti voler retrocedere nell' antichità più remota.Certa musica disco batte ritmi su cui s'intessono melodie medievali ben riconoscibili sotto l'ipnotica base percussiva che le spara direttamente nel sangue con una forza d'amplificazione sconosciuta a qualsiasi tamburo, mentre il popolo notturno che migra per discoteche distanti centinaia di chilometri nella pianura entra in trance al refrain di remake di ballate come:Impiccheranno Geordiecon una corda d'oro.È un privilegio raro.Rubò sei cervi nel parco del re vendendoli per denaro...Rubò sei cervi nel parco del reee vendendo-li-per- de-na-rooo...L'unica strofa della vecchia canzone di De André, già elaborata da un originale scozzese, rimasta nel rifacimento da discoteca è questa, salmodiata per un tempo che potrebbe dilatarsi all'infinito, e dove solo le cesure del verso cambiano a ogni ripetizione. Tutto è remake e remix. Quanto un tempo aveva significato qualcosa e costituito un intero adesso viene sminuzzato, assemblato diversamente e lasciato a galleggiare come relitto, negletta eredità di un' epoca più matura, in un brodo sonoro puerile e ossessivo.C'è un altro pezzo in cui si sente una musica di chiesa e, molto in lontananza, i gemiti di piacere di una donna. All'inizio sono flebili come miagolii incrostati alle note del gregoriano e uno pensa a un'allucinazione uditiva, poi però la musica sacra cala e il lamento cresce fino a un orgasmo che fuga ogni dubbio sulla sua natura; non estasi mistiche ma spinte pelviche devono suggerire queste sonorità concepite soltanto per aizzare frotte di corpi che si ammassano in spazi angusti.Sotto l'influsso di tali ritmi sacrileghi, di tali commisti linguaggi, le membra dei contemporanei ondeggiano e lo spirito con cui uomini e donne indossano vesti, acconciano chiome, si adornano per prepararsi allo spettacolo della violenza è lo stesso di tremila anni fa: squillante, tribale, sessuale.L'arcaismo è contraddittorio, in genere appare en- fatico e fasullo, ma qualche volta può essere severo.È enfatico: i mendicanti oggi hanno preso a implorare secondo lo stile dell'accattonaggio antico, sia perché provengono da luoghi lontani sia perché hanno capito che sbattere in faccia alla nostra sensibilità molle una sofferenza oltraggiosa e urlata gli conviene; così invocano a voce alta, oppure se ne stanno inginocchiati e immobili, accartocciati, contorti nelle posture di una questua drammatica.Può essere severo: i gladiatori morivano, anche se meno spesso di quanto possiamo immaginare un caso di morte ogni dieci scontri, secondo un calcolo fatto oggi mentre i nostri atleti non muoiono, generalmente, i colpi però li segnano.La differenza tra il presente e il passato tra l'arena polverosa e il ring illuminato è più d'intensità che di sostanza, anche se noi alimentiamo l'illusione di non dover morire mai, noi per cui la morte non è conclusione ovvia ma bastardo accidente.Per la verità, la sola, la semplice idea del combatti- mento ha sempre dovuto rimandare, anche presso gli antichi, a qualcosa di ancora più antico, come se non fosse mai esistita epoca abbastanza remota da non considerare l'affrontarsi di due uomini un rito troppo bar- baro per essere vissuto con naturalezza. Così i Romani facevano scendere nell' arena, col compito di trascinare via i corpi degli uccisi, inservienti mascherati non come i loro dèi ma come i più arcaici demoni etruschi della morte: Charun e Tuchulcha, guardiani delle tombe e accompagnatori delle anime nell'ultimo viaggio.Charun si materializza in ogni scenario di batta- glia. La sua arma è il martello, per il colpo di grazia, la chioma è fitta di serpenti, le orecchie a punta. Ha occhi rossi, naso d'avvoltoio, la carne marcia. E Tuchulcha riesce a essere più orrendo, munito di grinfie e artigli, mostro capace di ispirare ancora oggi storie d'orrore, se con me è rimasto qualcuno che ricorda un horror non spregevole degli anni Settanta, un B movie intitolato L'etrusco uccide ancora.Gli intellettuali dell'antichità erano nauseati dagli spettacoli del circo, anche se Cicerone, per qualche riga, nelle Tusculanae, si sorprende di come i gladiatori sappiano morire.La ragione per cui molti dettagli degli spettacoli gladiatori sono incerti per noi oggi sta proprio nella scarsità delle fonti letterarie. Gli scrittori latini ne hanno parlato pochissimo. Come mai? Noi che abbiamo costruito mitologie su incontri di pugilato infinita- mente più innocui, che abbiamo celebrato corride assai di rado letali, per non parlare di un calcio bellicoso nei commenti quanto mite in campo, ci saremmo precipitati come avvoltoi sulle storie dell' arena. Invece, delle centinaia di campioni che infiammarono le folle romane non ci è giunto che qualche nome, degli scontri più memorabili non ci è arrivato un solo resoconto. Eppure basterebbe pensare al potenziale drammatico della circostanza più frequente: che i due avversari quasi sempre si conoscevano benissimo per essersi allenati insieme nello stesso ludus, la stessa scuola.Nello Spartacus di Kubrick c'è quella scena dellungo sguardo che Kirk Douglas-Spartaco e il suo compagno, il nero Draba, destinati a combattere l'uno contro l'altro per divertire Crasso, si scambiano prima dello scontro, quando aspettano di essere chiamati e dall' ombra che li avvolge emerge solo il bianco dei loro occhi che si fissano in silenzio.TI fatto è che agli scrittori latini il sangue non mancava. Le loro pagine ne grondano, sangue di principi, di nobili e di interi popoli. Non avevano nessun bisogno di abbassarsi fino al vilis sanguis dei gladiatori effuso nell' arena per divertimento. E che il divertimento fosse solo di chi guardava conta poco, un certo tipo di pietà per l'individuo è roba contemporanea.Al silenzio sprezzante della letteratura corrisponde invece un' emozionata partecipazione delle arti figurative. Dipinti, graffiti, mosaici, bassorilievi, sta- tue, steli funerarie raccontano da ogni angolo dell'im- pero, dall' Africa alla Britannia, le tragedie del circo, e lo fanno in maniera davvero narrativa. Più narrativa che simbolica. In riquadri, sequenze che mostrano tutti i momenti dello scontro, il suo sviluppo, l'esito.Dalla stele funeraria del secutor Urbico apprendiamo che fu ucciso da un avversario al quale in un precedente combattimento aveva salvato la vita, e da quella di Diodoro di Amiso veniamo a sapere una storia quasi analoga. Disarmato l'avversario, Diodoro pensava di aver vinto, ma l'arbitro li aveva fatti continuare e la seconda volta ebbe lui la peggio. In- vece un mosaico conservato al museo archeologico di Madrid mostra le varie fasi dello scontro tra gli equites Habilis e Maternus, fino all'uccisione di Maternus che si deduce dalla "teta nera" (l'iniziale greca di thànatos, morte) vicina al suo nome.Le arti figurative restituivano l'umile cronaca diquelle morti trascurabili. Gli scrittori romani, così bene inseriti nel corso del-la storia, non avevano bisogno, come noi che invece dalla storia siamo sostanzialmente tagliati fuori, di ricercare un senso più grande in vicende marginali. Spesso erano aristocratici che detestavano quegli spettacoli nei quali vedevano tutta la bassezza di un rito modellato sul gusto mediocre delle masse. Invece gli intellettuali di oggi, che per le masse nutronò un disprezzo assai meno dichiarato, sono incuriositi dal combattimento perché pensano di poter attingere attraverso di esso una profondità dell' esperienza altrimenti preclusa e poi perché gli appare una singolare sopravvivenza arcaica meritevole di non estinguersi per sempre, alla pari di altre stranezze nobili- tate soltanto dall'appartenere alla storia.Chi non conosce questo mondo è attratto dall'uomo che lotta e lottando dà spettacolo perché gli sembra di accedere immediatamente ai territori dell'oltranza. Chi invece lo conosce bene preferisce pensare, al contrario, che esso non incarni un'idea di furore ma piuttosto di equilibrio.TI combattente rappresenta un tipo ideale, di lui si sa con certezza che è costruito per infliggere e, in egual misura, subire colpi. Un' eccezione, in un mon- do diviso tra coloro che i colpi li vorrebbero soltanto dare e quelli che li possono soltanto ricevere.

martedì 2 ottobre 2007

Mauro Covacich - "A Perdifiato"

Dario Rensich corre, e lo fa per sfuggire alla vita da adulto. Arrivato sesto nella gara di New York, andrà in Ungheria ad allenare un gruppo di ragazze pronte a tutto pur di emergere. Da qui la passione per Agota, giovane e introversa atleta ungherese, pur essendoci in Italia una moglie ed una figlia adottiva in arrivo ad attenderlo. Una storia che si svolge lungo le rive di fiume in agonia, il Danubio, inquinato dal cianuro (riferimento ad un evento realmente accaduto). Fiume che nonostante questo, fa da cornice agli allenamenti delle ragazze (veramente belle le descrizioni degli allenamenti). I richiami alle tecniche di allenamento sono precise e veritiere.
Appassionate ed emozionante la maratona finale...da leggere tutta d’un fiato!

Un piccolo assaggio:
Il Lunghissimo ha messo in difficoltà alcune ragazze. Magdolna ha una crisi emorroidaria in corso. lmréné ha avuto due scariche diarroiche, sopravvenute a perfezionare un principio di disidratazione. A Mihalyne è capitata la cosiddetta indigestione d'acqua, che è l'altra faccia dello stesso problema, e lo stomaco le si è riaperto solo stamattina con una flebo decongestionante. Poco male, il primo Lunghissimo può fare questo effetto. Per Magdolna poi sono proprio contento. Sarà divertente incrociarla sulla Karasz Utca, sabato, mentre porta a spasso quei suoi capelli a più ricrescite senza poter smettere di allargarsi le mutande dal taglio del culo. Sarà divertente vederla passeggiare a gambe larghe, magari a braccetto del suo amico Làszlò Non è strano che in uno sforzo così intenso e prolungato ti si lacerino i muscoli rettali, però se ti capita a diciott' anni, cara Magdolna, quella sarà la tua croce per tutta la carriera.
All'inizio l'avevano presa quasi per scherzo. Correre ai ritmi del Lunghissimo in effetti non sembra una cosa seria. A 4'20", ovvero a un minuto circa sotto la soglia, le ragazze rischiavano di ingolfarsi. Non erano mai andate così piano, non sapevano dove scaricare tutti i watt dei loro polpacci, delle loro caviglie, della loro precedente vita di mezzofondiste. Nel tratto cittadino che conduce all'argine chiacchieravano, facevano i loro stupidi balzi, indicandosi i piedi, aggiustandosi il top, esibendo ai tizi delle fermate dei tram un relax sofferto, non voluto. Dovevo riprenderle in continuazione. - Keep down the knees, Monika -. Ci si metteva anche la prima della classe: davanti, come al solito, più alta di mezza testa, Monika zampettava, si girava a destra e a sinistra, le mancava solo il bastone da majorette. Dietro di lei, Agota sprecava millilitri di ossigeno per gridare a Làszlò di tenersi più largo dal gruppo con un'insistenza e una foga onestamente esagerate. Finché per fortuna, passate le villette a schiera di Furj Utca, anche l'ultima traccia di pubblico è svaporata nella bruma della campagna. L'argine ci aspettava subito dietro un edificio in costruzione. Ecco la costola, finalmente. Sporgeva da fare impressione: dritta fin quasi a dove si vedeva, curva laggiù, dove il pianeta curvava. Quando ci siamo montati sopra, la concentrazione è venuta da sola.
Via via che incontravamo le tacche uscite dalla bomboletta di Làszlò, le ragazze prendevano coscienza della misura dell'impresa. Alla dodicesima, bisognava toccarne ancora sette e poi tornare indietro. Prendeva forma nella loro mente l'idea del Lunghissimo. Facevano i conti: 38 km a quel passo significava due ore e tre quarti almeno di corsa ininterrotta una durata di cui non avevano esperienza ma che ora iniziavano a immaginare. Io seguivo i cambiamenti. Guardavo i calzoncini già fradici di Agota, i glutei rosa in trasparenza, la pelle luccicante delle spalle: alla fine dell'allenamento avrebbe perso circa tre chili, in buona parte poi reintegrati con liquidi e sali, ma il suo corpo non avrebbe smesso di consumare. Spaventato, quasi impazzito per la quantità di calorie richieste, avrebbe continuato a bruciare adipociti anche nel sonno. Era bello figurarsela accesa, in funzione, mentre dorme. Questa cosa qui in calzoncini bianchi è mia. L'ho trovata, me l'hanno regalata, e adesso è tutta per me. Cercavo di non farmi sorprendere dalle altre mentre la osservavo, ma ormai su ognuna era scesa una calotta di solipsismo. Nei tratti asfaltati il gruppo si allargava, nei tratti sterrati si assottigliava in due file assecondando le piste senz'erba, i binari consumati dai mezzi. Si apriva e si chiudeva. Tutto avveniva naturalmente. Nessuno diceva niente perché succedesse. Era un unico grande polmone che respirava. Indossavamo le Wave Phoenix, che hanno un modo speciale di cullarti a velocità di crociera. Anche il loro rumore tendeva a sincronizzarsi, creando, insieme a quello del fiato, una specie di metrono ma collettivo. Tre passi al secondo, duecentotrenta metri al minuto, quattordici chilometri all'ora. Solo la citybike di Làszlò cigolava fuori tempo. - You need visa to go Romania, - scherzava il nostro por - taacque. In effetti eravamo talmente lontani dall'ultima casa che potevamo immaginare di avere già abbandonato l'Ungheria. Era come se stessimo attraversando una sterminata terra di nessuno, una terra che appartiene alla T erra e basta, un pezzo di pelle teso come solo il collo di un contorsionista può esserlo. Ogni tanto incontravamo qualcuno intento a spargere letame. Le sventagliate di merda salivano di parecchio oltre la cabina del trattore. La puzza copriva quella del fiume e Làszlò chiosava: - This not bad smell, this good -. Dei due lati, quello era il lato della vita: il lato destro andando, il lato sinistro tornando. Di qua c'era la morte, con i suoi alberi e le sue frasche avvelenate, ma di là no, di là c'era la vita, la vita concimata della pianura. Era questo che voleva insegnarmi Làszlò, credo. Intanto passavamo accanto a una dozzina di contadini piegati sui loro campi neri. I cavolfiori che estraevano dalla zolla sembravano teste sepolte di fresco, abbandonate li dopo una decapitazione di massa. Il loro lavoro aveva tutta l'aria di una riesumazione post eccidio. Ho girato la testa verso il Tibisco e ho visto le nostre ombre vatusse proiettate sulla sterpaglia, in fuga accanto a noi. Sugli alberi, solo corvi. Anche in mezzo ai rovi, alle canne e al fango. Tanti, moltissimi corvi, che scintillavano come piccole carrozzerie sotto il sole di mezzogiorno. Dovevano essere loro gli uccelli che avevamo visto in cielo, io e Làszlò, il giorno delle misurazioni in bicicletta: non c'era nient'altro che fosse capace di volare nel raggio di quindici chilometri. Tut-to era fermo ora. Fermo e silenzioso. Gli alberi, il fiume, i contadini, i corvi, il collo del contorsionista. Solo noi ci muovevamo li sopra.
I problemi sono cominciati al ritorno. Dopo il ristoro del trentesimo chilometro abbiamo dovuto fare due minuti di corsa sul posto, in attesa che Irnréné scaricasse. Intanto Mihalyne aveva già avuto alcuni conati e Magdolna aveva preso a correre schiacciata sui talloni, con le cosce divaricate e una mano costantemente in cerca dell'ano. Comunque non si trattava di una disfatta: le altre quattro stavano reggendo a meraviglia. Monika in particolare, salvo la perdita di qualche elastico arancione, non aveva praticamente cambiato aspetto. Quando siamo rientrati in città mi sono messo io davanti per impedire che la disperazione le costringesse a incrementare l'andatura. Sentivo la stanchezza massaggiarmi dolcemente le meningi, viziarmi con dosi smodate di endorfine, come un pusher innamorato. Sentivo i lamenti sommessi di Mihalyne, la prima esplosione di vomito, la sua vergogna. - Well done, Mihalyne. Don't give up, - le ho gridato. E lei è stata colta da un' altra esplosione, proprio davanti alle inferriate del Ligetfurdò. Dovevano essersi voltati anche i pallanotisti. Che schifo! Teppiste! Si, si, teppiste, dite pure, dite quello che volete.
Ma Mihalyne non ha mollato.
Subito dopo lo stretching ho chiamato Maura. Le ho raccontato delle mie ragazze, di come se la cavano. Le ho detto che una ha cagato nel parco, che un' altra esplode vomito come Paul Tergat e inspiegabilmente non ne va fiera, e poi che l'indomani avrei dovuto concedere una colazione seria se no l'ammutinamento era garantito. Insomma cercavo di divertirla, lei però sembrava ascoltarmi con mezzo orecchio. Perdeva le battute, rideva a sproposito. A un certo punto mi ha chiesto:
- Farai correre così anche tua figlia? Sono rimasto a fissare il termosifone. Era come se la mano di Maura fosse uscita dal telefono e mi avesse strappato la spina dorsale. Distrattamente, il bello è che l'aveva fatto distrattamente. E io di colpo ero privo del sistema nervoso centrale.
- Dario, mi senti?
- S sì.
- Che fai? Non mi rispondi?
- Non so. - Massi, lo so io. La farai correre cosi, la nostra piccola. Già vi vedo, ogni mattina, su a Basovizza, nel tuo boschetto. Ti vedi? Ti vedi con Fiona? - Nel suo tono la distrazione era svanita. Adesso c'erano picchi molto acuti. - Oppure, nel Tilden, a Berkeley. Perché potremo anche andare a trovare Alberto, no? lo vi vedo benissimo voi tre, che girate tra gli eucalipti. Eh? Ti vedi? Ti vedi con Alberto e la bambina? lo in effetti vedevo tutto. Vedevo il boschetto di Basovizza, i suoi sassi, il suo tappeto di aghi di pino. E poi vedevo il Tilden, gli eucalipti e io e Alberto che ci corriamo in mezzo. Ma anche di piu: vedevo Trieste per intero, che si cala da Basovizza giu giu fino al mare, le salite e le discese della mia città, le salite e le discese di Berkeley, le salite e le discese del mondo rimasto fuori da Szeged. C'era solo una cosa che non vedevo.
- Rispondi. Ti vedi? Te la vedi Fiona che corre con te? Solo una cosa. Comunque ho risposto si.